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Petrolio, quota 200 dollari? Incubo per Obama, benedizione per Putin

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Il contenuto di questo articolo – pubblicato da Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Milano – Il senatore repubblicano John Barrasso, un medico del Wyoming che ha lavorato a Yale, l’ha detto chiaramente: il Presidente Obama dovrebbe essere ritenuto «pienamente responsabile per quanto il pubblico americano sta pagando per la benzina». Il settimanale «The Economist» gli ha subito fatto notare che non sono parole che si addicono al rappresentante di un partito che solitamente inneggia al mercato visto che il prezzo della benzina non lo decide certo la Casa Bianca, né sa-rebbe auspicabile che lo facesse.

L’episodio è utile per capire quali siano le conseguenze politiche del rialzo del barile che ora viag-gia attorno ai 3,8 dollari al gallone. Dato che un gallone sono 3,7 litri significa che gli americani stanno pagando la benzina circa un dollaro al litro. Il punto non è che la cifra sia la metà di quanto la paghiamo noi in Italia. Semmai il punto è che, in un paese di quelle dimensioni, l’auto fa parte dei diritti fondamentali e, per quanto ora, grazie a tecnologie più efficienti, il consumo medio di un mezzo di trasporto privato negli Usa sia sceso a 29,7 miglia per gallone rispetto alle 24,7 miglia di dieci anni fa, il dato non è certo sufficiente a togliere al prezzo della benzina la sua valenza politica. Come fa sorridere Barrasso appare ancora più ridicolo un altro repubblicano, l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, che ha promesso che, in caso alla Casa Bianca dovesse andarci lui, ripor-terà il prezzo della benzina a 2,5 dollari al gallone, senza per giunta dire come. Quello che non fa ridere sono i rischi che corre Obama in caso di attacco all’Iran. Il petrolio a 200 dollari ha tutto il potenziale per diventare un chiodo nella bara della sua rielezione, nonostante nessuno dei candidati repubblicani sembri suscitare particolare entusiasmo. In un sondaggio Washington Post/Abc tre quarti degli americani si sono dichiarati insoddisfatti di quello che sta facendo Obama per far scendere il prezzo del petrolio. E lui ha subito risposto: «Fin tanto che i prezzi della benzina sono in salita, la gente pensa che io non stia facendo abbastanza e lo capisco».

Perché se la Casa Bianca non può fissare il prezzo del petrolio, può però mettere in campo delle politiche per contenerlo. Le 11 superpetroliere affittate dai sauditi per portare negli Usa 22 milioni di barili sono la carta che Obama sta giocando per lenire il problema, in ossequio allo storico le-game fra la famiglia Al Saud e gli americani. Ma l’incognita maggiore per lui resta non tanto l’Iran quanto Israele. Sono in molti a temere che il favore di Benjamin Netanyahu per i repubblicani possa portarlo a giocare qualche brutto scherzo all’inquilino democratico della Casa Bianca. Se dovesse lanciare un attacco unilaterale contro Teheran in estate, gli Usa dovrebbero seguirlo, ma soprattutto a Obama non basterebbe più aver ridotto a metà marzo il tasso di disoccupazione (all’8,8% dal 10,9% di inizio 2010). Né gli basterebbero le assicurazioni del governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, che ripete come un mantra che le prospettive dell’economia Usa sul lungo termine sono positive. Ci si può fidare di Bibi? Da questo punto di vista le chiavi per altri quattro anni di Casa Bianca sono nelle mani del primo ministro israeliano. Un pericolo non da poco per l’uomo considerato, a torto o a ragione, il più potente del pianeta.

Pericolo che potrebbe diventare un’opportunità invece per Vladimir Putin. Per essere rieletto, l’ex capo del Kgb a Berlino Est non si è affidato solo al suo autoritarismo e al controllo che esercita sulle leve del paese. Visto che la piazza rumoreggiava, questa volta ha anche fatto una serie di promesse che includono salari più alti per dottori e insegnanti, un ammodernamento degli arsenali militari e l’estensione del “bonus bebè”. Prendiamo quest’ultima. Per ogni russo che viene al mondo la sua famiglia riceve dalle autorità 8.300 dollari. Ma il bonus finora era solo per i primi due figli e Putin ha promesso di estenderlo anche al terzo. Secondo un calcolo della Higher School of Economics, riportato dal «New York Times», solo questa promessa costerebbe 4,6 miliardi di dollari l’anno. Il Pil russo è grande, ma a 2.300 miliardi di dollari non è poi così lontano dai nostri 1.820 miliardi (di dollari). Morale: secondo i calcoli di Citigroup, se Putin volesse davvero rispettare queste promesse senza compromettere le casse del Cremlino, avrebbe bisogno di un prez-zo del petrolio attorno ai 150 dollari al barile, cosa che finora non è mai successa.

Magari Citigroup esagera ma il punto è che, se pren-diamo ad esempio il Brent, toccò il suo massimo storico il 3 giugno del 2008 a 146,08 dollari. Certo se poi le entrate aggiuntive vanno solo in spesa pubblica e non nel cercare di dotare il paese di un sistema industriale che lo renda meno esposto alle fluttuazioni del mercato dell’energia, oppure, se non vanno nel Fondo sovrano rus-so che deve aiutare il paese ad assorbire queste fluttuazioni, questo è un bel problema che preoccupa alcuni analisti. Ma che non sembra far venire il mal di testa alla leadership russa. Per la quale, va da sé, un prezzo di 200 dollari sarebbe la manna dal cielo. Così potrebbe mantenere le promesse e al futuro del paese ci penserà qualcun’altro.

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