*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – La vittoria di Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni presidenziali iraniane e soprattutto le prime sue dichiarazioni programmatiche, tra le quali primeggia l’intenzione di proseguire il contestato programma nucleare iraniano, hanno immediatamente contribuito ad un ulteriore rialzo del prezzo del petrolio che due giorni fa si è avvicinato alla soglia dei 61 dollari il barile. Il rischio di un aumento delle tensioni tra Washington e Teheran è stato unicamente un fattore aggiuntivo alla corsa al rialzo del prezzo del greggio, che spinge oggi molti specialisti a ritenere che il prezzo sia destinato prossimamente a salire fino a 65 dollari il barile e che sia improbabile una correzione con ritorno al di sotto dei 50 dollari prima della fine di quest’anno.
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Le ragioni di questa impennata sono note: la domanda di greggio sta crescendo in modo sensibile e l’offerta di oro nero stenta a tenere il passo con la domanda. L’anno scorso la domanda di petrolio ha registrato il più rapido tasso di crescita e il maggiore aumento in termini assoluti dal 1973. È quanto emerge da un rapporto della compagnia britannica BP, secondo cui la domanda è aumentata del 3,4%, ossia di 2,46 milioni di barili il giorno. L’aumento della domanda è strettamente correlato con la crescita dell’economia mondiale. Quindi, anche se le economie, soprattutto quelle dei paesi industrializzati, sono diventate molto più efficienti nell’uso del petrolio, ciò non è bastato in termini assoluti a provocare una minore domanda di greggio, che in base ad alcuni studi sta crescendo a partire dal 1983 ad un tasso medio annuo dell’1,5%.
Questa crescita della domanda globale non è solo legata, come invece si afferma spesso, al boom economico cinese e degli altri paesi emergenti, dove negli ultimi anni sono stati registrati i maggiori tassi di crescita economica. Infatti, in base alle stime, se è vero che negli ultimi anni dalla Cina è giunto il 35% della domanda aggiuntiva di petrolio, bisogna anche sottolineare che gli Stati Uniti, i maggiori consumatori di greggio del mondo, hanno aumentato la loro «sete» di petrolio del 20%.
Quindi, la domanda è cresciuta, mentre la scoperta di nuovi giacimenti non ha tenuto il passo. Anche perché gli investimenti sono stati tagliati all’inizio di questo decennio, quando il prezzo del greggio era sceso sotto i 10 dollari il barile. Azzerati sono stati addirittura gli investimenti in nuove raffinerie, per cui oggi le capacità di raffinazione sembrano essere inadeguate alle esigenze, con la conseguenza di un maggiore aumento dei prezzi dei prodotti raffinati. Il fenomeno finora più sorprendente dell’impennata del prezzo del greggio, così come dei prezzi di molte altre materie prime, è che finora ha avuto punto o scarsa influenza sulla crescita dell’economia mondiale.
I precedenti choc petroliferi avevano sempre prodotto una recessione nei paesi industrializzati, mentre oggi sembra che nulla di tutto ciò sia all’orizzonte. L’economia statunitense appare in buona salute e anche le attuali difficoltà europee appaiono solo in minima parte dovute al prezzo del greggio, anche perché il rafforzamento dell’euro ne aveva attutito l’effetto. Questo scenario sta molto probabilmente cambiando. La soglia dei 60 dollari il barile è probabilmente da considerare come la «soglia del dolore».
Infatti, non solo i mercati azionari hanno cominciato a correggere, ma soprattutto sia in Europa sia negli Stati Uniti si moltiplicano le aziende che dichiarano di non essere più in grado di assorbire l’aumento del costo delle materie prime senza scaricarlo sui prezzi di vendita. Questo processo è destinato a provocare alcuni importanti effetti. In primo luogo, a decurtare il reddito a disposizione delle famiglie per i consumi, già ridotto dall’aumento del prezzo della benzina e degli altri derivati del petrolio.
In secondo luogo, a provocare un rialzo temporaneo degli indici dei prezzi al consumo, ma non ad innescare un processo inflazionistico, poiché (così come giustamente continuano a segnalare i mercati dei capitali dove i tassi a lungo termine continuano a scendere) l’effetto economico complessivo dell’aumento del greggio è deflazionistico, ossia tende a frenare la crescita economica. In terzo luogo, più a lungo termine, il rallentamento della crescita economica tenderà a ridurre lo squilibrio attuale tra una domanda di greggio che cresce rapidamente e fortemente e una capacità di estrazione dei paesi produttori, che oggi è prossima ai massimi, frenando (o anche addirittura facendo scendere) il prezzo del petrolio. Insomma, anche questa volta, come è sempre accaduto in passato, un forte rialzo del prezzo del petrolio è destinato ad avere quale inevitabile conseguenza una recessione.
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