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Petrolio, Cina: parte la concorrenza agli Usa

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L’Africa è diventata il principale terreno di sfida tra gli Stati Uniti e la Cina. I due Paesi sono ad oggi i maggiori importatori mondiali di petrolio e risorse energetiche, di cui il Continente nero è ricco. Vengono importate dall’Africa il 28 per cento delle scorte cinesi (principalmente da Sudan, Angola, Congo e Nigeria), mentre per gli Usa si parla di circa 15 per cento. Ma se nei tradizionali mercati di greggio e gas sono gli Stati Uniti solitamente i vincitori delle forniture, in Africa è il contrario. Pechino, a differenza della comunità internazionale, non è interessata a modificare la politica interna degli Stati con cui tratta e non si pone il problema di fare affari con Governi “di dubbia moralità”. La stragrande maggioranza delle compagnie dei Paesi occidentali, invece, sono legate alle regole poste da organismi come il Fondo monetario internazionale o l’Onu e, di conseguenza, non possono intrattenere rapporti con gli esecutivi di alcuni Stati africani. La Cina, inoltre, gode di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e sfrutta il potere che ne deriva per “tutelare” gli amici. Questa pratica ha avuto effetti positivi per Pechino: da una parte ha favorito gli affari con vari Governi e, dall’altra, ha indebolito l’influenza statunitense nella regione.
Un esempio eclatante di come è stato sfruttato il seggio all’Onu è avvenuto con il Sudan. Pechino ha dato un forte contributo per evitare qualsiasi risoluzione rilevante da parte del Consiglio di sicurezza sulla questione della guerra in Darfur. In cambio ha ottenuto vantaggiosi accordi per la prospezione petrolifera, più forniture di greggio a prezzi stracciati. In questo caso, gli interessi cinesi e quelli occidentali sono collimati. Khartoum per ottenere gli aiuti economici ha dovuto siglare l’accordo di pace con i ribelli del Sud e rivedere la propria politica nella questione del Darfur. In altri, invece, Cina e Occidente non si sono trovati sulle stesse posizioni, ma il Paese asiatico è sempre riuscito a vincere. Per esempio l’anno scorso il Fondo monetario internazionale aveva promesso di fornire assistenza economica all’Angola in cambio di riforme politiche da parte di quest’ultima. Si era quasi giunti a un accordo, ma poi è entrata in gioco proprio Pechino, che ha prestato all’Esecutivo angolano 2 miliardi di dollari a basso interesse e ha vanificato gli sforzi del Fmi. A seguito dell’accordo, la Cina ha ottenuto un appalto per la ricerca di petrolio, battendo colossi multinazionali come la Total e la Shell.
Per quanto riguarda la Nigeria, il Financial Times ha riportato il 28 febbraio che lo Stato africano aveva cambiato fornitore di equipaggiamento militare, passando dagli Usa alla Cina. Il motivo è che Washington aveva bloccato le forniture a seguito di problemi di corruzione nelle forze armate nigeriane. Pechino è subentrata in poco tempo grazie alla promessa del rinnovo della dotazione bellica in cambio di greggio per un valore di 800 milioni di dollari e delle licenze di trivellazione. Inoltre, un portavoce del Governo cinese ha affermato che il suo Paese sta considerando l’ipotesi di effettuare investimenti nelle infrastrutture dello Stato africano per altri 7 miliardi. L’Etiopia, poi, ha definito la Cina “l’unico partner affidabile negli affari”, dopo che la comunità internazionale aveva criticato le irregolarità nelle recenti elezioni e le non risolte tensioni con la vicina Eritrea sulla questione dei confini. Dopo le affermazioni sono seguiti i fatti. Agli inizi del mese una compagnia petrolifera cinese è stata autorizzata da Addis Abeba a cominciare le prime prospezioni del terreno per scovare il petrolio nel bacino di Gambella (Ovest Etiopia). Anche l’Eritrea da tempo fa ottimi affari con la Repubblica popolare, tanto che lo ha privilegiato a scapito della maggior parte degli investitori internazionali. Per esempio, solo le aziende cinesi possono possedere e operare con conti in valuta. Le altre compagnie devono chiedere l’autorizzazione per ogni singolo movimento e questo non può superare i duemila dollari. Infine nella capitale, Asmara, c’è ormai una intera “Chinatown”, dove vivono più di 30 mila asiatici.
s. g.