*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell’allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) – La crisi immobiliare continua, i prezzi delle case scendono e scenderanno, ma almeno c’è una risposta di policy, politica e monetaria. La crisi finanziaria era stata archiviata dai mercati come superata in marzo. In realtà si era superata solo la fase acuta. La crisi è entrata in una fase cronica difficile, ma anche qui le reazioni di policy da parte delle banche centrali sono state energiche.
La crisi energetica, dal canto suo, ha continuato ad aggravarsi. La risposta politica, fino a questo momento, è quanto di più deprimente possa esserci. Si litiga come i capponi di Renzo sulle colpe dei malvagi speculatori e degli avidi petrolieri. Si pasticcia sulle accise in Occidente e sui sussidi (che se vogliamo sono accise al contrario, cioè negative) in Oriente, concludendo poco o nulla. Qualsiasi piano di medio termine viene tacciato di essere troppo poco e troppo tardi, che sia il solare, l’Alaska, il nucleare.
Il risultato è che il prezzo del greggio, nonostante l’ipercomprato evidenziato anche dall’ampia volatilità, non riesce a scendere, anche perché la Cina del dopo terremoto ha un fabbisogno
accresciuto, mentre il raccolto americano del mais (e quindi dell’etanolo che ne verrà ricavato) si prospetta brutto.
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Ci si culla nell’idea della speculazione che gonfia i prezzi. Soros, più sofisticato, dice che è colpa dei fondi pensione che comprano materie prime come asset class e sono insensibili a un eventuale aumento dei margini sui contratti a termine. In realtà, a nostro avviso, si può portare il margine al 100 per cento, si può vietare ai fondi di comprare materie prime, si può fare come Roosevelt che nel 1934, quando svalutò il dollaro, rese illegale la detenzione di oro. Gli stati nazionali possono fare molte cose, ma non possono creare il petrolio dove non ce n’è più.
Della soluzione del problema petrolifero si incarica dunque il prezzo del greggio. A un certo punto il prezzo farà anche il miracolo di indurre i paesi consumatori a seguire l’esempio dei pochi che si sono dotati di una politica (la Svezia con l’uscita dal petrolio, la Francia con il nucleare, la Germania con la riduzione razionale della domanda, la Spagna con l’eolico) ma questo avverrà quando l’acqua sarà arrivata alla gola.
Nel frattempo le banche centrali si trovano nella difficile situazione di dovere dare una risposta a tre crisi che richiedono, in realtà, approcci contrastanti tra loro.
Le crisi finanziaria e immobiliare richiedono infatti una risposta monetaria accomodante, che è stata data tutto sommato presto e bene. La crisi energetica, per contro, richiede quanto meno una risposta diversa da quella che venne data negli anni Settanta quando, per lenire il dolore del caro petrolio, si abbassarono i tassi.
Risposta diversa può dunque significare neutralità o, in un’altra ipotesi, una politica restrittiva. La neutralità è la risposta consigliata dalla teoria. Si prende il pacco sgradevole dell’aumento del petrolio e lo si gira pari pari ai consumatori finali, sapendo benissimo che questo comporta più inflazione e meno crescita (e quindi più disoccupazione). Rispetto a questo ci sono però due problemi.
Il primo è che l’inflazione da petrolio e materie prime, che in teoria è una tantum, viene percepita a un certo punto dal mercato e dal pubblico come l’avvio di una fase lunga di inflazione non solo alta, ma sempre più alta. Questa percezione può anche non tradursi (come invece avvenne negli anni Settanta) in una rincorsa salariale, ma fa comunque danni perché induce una richiesta di tassi reali più alti proprio in un momento in cui l’economia è sull’orlo della stagnazione.
Nelle ultime settimane la psicosi da inflazione si è diffusa in tutto il mondo e i tassi reali richiesti sui titoli a lungo sono saliti. Come avvenne nella primavera del 2006, con Bernanke appena insediato, la retorica anti-inflazione a un certo punto non basta più e, poiché la psicosi va stroncata il più in fretta possibile, si deve fare qualcosa di concreto. Cioè alzare i tassi. Con la morte nel cuore.
Tra le grandi banche centrali sarà la Bce a farsi carico, probabilmente, di un rialzo vero. La Fed, dal canto suo, può permettersi il lusso di impegnarsi solo a termine e cioè sulla exit strategy dalla lunga fase di tassi bassi e stabili che stiamo vivendo. Dicendo che la prossima modifica sarà verso l’alto la Fed non si impegna sui tempi (anche se il governatore ombra Feldstein parla di 50 punti verso fine anno) ma può incassare subito la stabilizzazione del dollaro e una minore ansia dei mercati obbligazionari.
C’è però un altro problema, il secondo. E’ il fatto che la crisi finanziaria e immobiliare di tutto hanno bisogno fuorché di tassi più alti. Come si conciliano queste opposte esigenze?
Si conciliano con contorsioni e acrobazie piuttosto abili e confidando nella buona sorte. Dopo avere abbassato i tassi aggressivamente, quanto meno in America, c’è un piccolissimo margine per andare nella direzione opposta. Che il margine sia piccolissimo lo confermano le dichiarazioni di Stark e Weber, con il primo che dice in pratica che ci sarà un rialzo solo e il secondo che minimizza la forza dell’economia tedesca nel primo trimestre (su cui per mesi aveva basato la sua linea dura) dicendo che sì, insomma, è stata forte, ma perché c’è stato bel tempo e l’edilizia ha potuto lavorare molto.
In altre parole, si parla ai mercati obbligazionari facendo loro vedere il prossimo aumento dei tassi e poi ci si gira verso i mercati azionari e le imprese e si fa capire che sarà un rialzo solo e che non è nemmeno sicuro al cento per cento. Sono contorsioni giuste e per certi aspetti ammirevoli.
La buona sorte in cui si spera si affida a due elementi precari ma possibili. Il primo è che i consumatori americani, sui quali da un mese piove una montagna di dollari dai rimborsi fiscali, spendano il più possibile il terzo trimestre e diano un po’ di colore, o anche solo di belletto, alla domanda interna.
Il secondo è che il petrolio interrompa il suo rialzo secolare almeno per qualche tempo. L’Arabia Saudita sta facendo qualche gesto distensivo, come la conferenza del 22 giugno tra produttori e consumatori e, più concretamente, l’aumento della produzione di 300mila barili (che arriveranno a 500mila).
Può darsi che nelle prossime settimane ci sia qualche momento in cui il quadro complessivo apparirà meno negativo. Già dalla seconda metà di giugno i dati macro americani inizieranno a riflettere l’aumento dei consumi. Il 22 ci sarà la conferenza di Jeddah. Il 30 giugno finirà il primo semestre e ci sarà forse qualche tentativo di abbellimento delle performance. In luglio i dati macro positivi (si spera) si moltiplicheranno. La psicosi da inflazione si sarà in parte diradata.
Dal momento che le borse sono ora più vicine ai minimi dell’anno che ai massimi di un mese fa c’è qualche spazio di recupero, soprattutto se nei prossimi giorni si andrà di nuovo in ipervenduto. Non stiamo dicendo di comprare alla grande, ma di chiudere gli short e di riportarsi a neutrale per chi è sottopesato. Nulla di più, per il momento.
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