Società

PERDITE IN BORSA? L’ ERRORE
E’ NEL TUO DNA

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*Docente di Economia cognitiva all’Università San Raffaele di Milano. Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) –
Alcuni degli sbagli che commettiamo nelle nostre scelte economiche quotidiane costituiscono la regola e non l’eccezione. Ricorrono indipendentemente dal contesto, dalla cultura e dalla professione (come ha documentato per via sperimentale il premio Nobel Daniel Kahneman).

E, a quanto pare, sono addirittura trasversali a diverse specie! Lo afferma un recentissimo studio di un gruppo di ricercatori dell’università di Yale, apparso – fate bene attenzione – non su una rivista di etologia, come sarebbe lecito attendersi dati i soggetti investigati (una colonia di scimmie cappuccine) e il titolo («How Basic are Behavioral Biases? Evidence from Capuchin Monkey Trading Behavior»), ma nientemeno che sul Journal of Political Economy.

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Un esempio aiuterà a capire di quali trappole mentali stiamo parlando. Ti è mai capitato di trovarti a Manhattan all’ora di punta, in una giornata di pioggia o di neve, e di aver bisogno di un taxi? Ti sei mai chiesto perché sia così difficile trovarne uno? La risposta risiede nella mente dei tassisti. Costoro stabiliscono un obiettivo di guadagno per ogni giornata lavorativa, raggiunto il quale «smontano». Lavorano così meno ore nei giorni in cui c’è maggiore richiesta. In quei giorni semplicemente hanno bisogno di meno tempo per raggiungere il loro obiettivo.

Dal punto di vista razionale – cioè secondo l’impeccabile calcolo economico – i tassisti non hanno alcun buon motivo di comportarsi così. Infatti essi dovrebbero calibrare lavoro e tempo libero in modo tale da lavorare di più quando il tasso di salario è alto, cioè quando si guadagna di più, e consumare più tempo libero quando questo «costa meno», cioè quando il salario cui si rinuncia è basso. Proprio il contrario di quanto evidenziano i dati sul campo. Come possiamo spiegare una tale irrazionalità?
Non diversamente dalla maggior parte di tutti noi, i tassisti odiano perdere. E le sconfitte bruciano comparabilmente di più rispetto al piacere arrecato dalle vittorie. I tassisti, come molti di noi, rivelano cioè una attitudine asimmetrica nei confronti di guadagni e perdite: in particolare la disutilità di una perdita è maggiore (più che doppia) dell’utilità di una vincita delle stesse dimensioni.

Studi empirici stimano che il dispiacere «puro» di perdere, poniamo, 100 euro possa essere compensato solo dalla soddisfazione «pura» di guadagnarne almeno circa 250. Con un rapporto, quindi, di 2,5 a 1. Ecco spiegata la trappola mentale: il fallimento nel raggiungere l’obiettivo di guadagno è percepito dal tassista come una perdita, per cui egli è disposto a lavorare più a lungo; mentre superare l’obiettivo è percepito come una vincita, ottenuta la quale il tassista è meno incentivato a continuare a lavorare.

Anche gli investitori, come i tassisti, odiano perdere e vogliono guadagnare quanti più soldi è possibile. Per farlo, come i tassisti, sarebbe opportuno prendessero decisioni razionali. Ciò significa per esempio gestire il proprio attuale portafoglio di titoli in base a una valutazione della loro performance futura. Se ci si comportasse così, allora il prezzo al quale si è acquistato un’azione dovrebbe essere considerato un punto di riferimento solo in funzione del capital gain e quindi delle tasse da pagare.

Banalmente, a parità di ritorno atteso conviene vendere un titolo in perdita perché su questo non si paga il 12,5% di tasse. Uno studio condotto su un campione di investitori molto ampio, tuttavia ha mostrato che non è così che ci comportiamo. Le azioni vendute nel giro di un anno superano mediamente del 3,4% quelle tenute in portafoglio: gli investitori vendono cioè troppo presto i titoli che avrebbero dovuto tenere, e tengono troppo a lungo i titoli che avrebbero dovuto vendere. Lo sa bene Warren Buffet quando ci ammonisce che «vendere i titoli quando si è guadagnato abbastanza è come tagliare i fiori e innaffiare le erbacce».

Ma quali sono le azioni che si vendono troppo presto? Quelle in guadagno, naturalmente. Il meccanismo psicologico che fa sì che questo accada in modo sistematico è sempre lo stesso: confrontiamo il valore di un titolo in portafoglio con il prezzo di acquisto. Questo ultimo diventa il punto di riferimento rispetto al quale la nostra mente inizia a codificare vincite e perdite. Se il valore del titolo è superiore al prezzo di acquisto, siamo di fronte a quella che ci rappresentiamo come una vincita allettante. Spinti a vendere il titolo per realizzare il guadagno, ecco che vendiamo troppo presto. Se, invece, il valore del titolo è sceso rispetto al prezzo d’acquisto, siamo di fronte a una perdita. E qui non ci dispiace attendere un po’ con la speranza di scongiurare una sconfitta: ecco che vendiamo troppo tardi.

Quando devono scambiare delle finte monete di alluminio con pezzi di frutta, le scimmie cappuccine si comportano esattamente nello stesso modo. Prendono decisioni in alcuni casi razionali come noi, ma compiono anche molti dei nostri stessi errori. Già si sapeva che, al pari dei ratti e dei piccioni, le scimmie cappuccine appre ndono presto a obbedire alla legge della domanda e offerta. E che, in più, le scimmie imparano velocemente la fungibilità del denaro.

Ma proprio come l’«uomo della strada» (e contrariamente al razionalissimo «homo oeconomicus» dei manuali) manifestano di subire l’effetto dell’avversione alle perdite: e proprio nello stesso rapporto di 2,5 a 1! Un risultato che suggerisce scenari che vanno ben oltre la gestione del portafoglio e l’offerta di taxi a New York, e solleva dubbi circa il valore predittivo dei modelli di razionalità economica.
L’avversione alle perdite, infatti, sembra essere una caratteristica innata ed evolutivamente antica del nostro sistema di preferenze. Così antica da risalire ad almeno 40 milioni di anni fa, prima cioè che scimmie cappuccine e uomo si differenziassero a partire dal loro comune antenato.

A quanto pare alcune caratteristiche di questo antenato sono ancora biologicamente ben radicate, mentre l’evoluzione dell’«uomo della strada» nell’«homo oeconomicus» è ancora là da venire.