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PERCHE’ I MERCATI CREDONO ANCORA NEL DOLLARO

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(WSI) – Il primo dicembre il consiglio direttivo della Banca Centrale Europea si riunirà a Francoforte. La domanda che attraversa la mente di cambisti, economisti e uomini politici da almeno un mese è se in quella occasione la Banca guidata da Jean Claude Trichet deciderà di aumentare di un quarto di punto percentuale il proprio tasso di riferimento, mettendo così termine a una lunga stagione di espansione monetaria.

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Essa coincide, appunto, con il passaggio di testimone tra Duisenberg e Trichet. Il primo, ombra lunga della Bundesbank, frenò l’espansione della massa monetaria europea proprio quando alla Fed Greenspan faceva il contrario, inondando i mercati di liquidità per contrastare il disordine e poi la deflazione innescati dall’attacco alle Torri dell’undici settembre 2001. Trichet, visto il risultato della politica di Greenspan, l’ha imitata, iniziando una vigorosa espansione monetaria proprio quando alla Fed decidevano di invertire, pur se con estrema gradualità, la marcia. Ha ottenuto il permanere di bassi tassi a breve e a lunga in Europa, mentre quelli americani risalivano.

Quando il differenziale tra i tassi a breve della BCE e della Fed ha raggiunto il 2%, i mercati hanno deciso di ricominciare a scommettere contro l’Euro e a favore del Dollaro. Così, in meno di un anno, il dollaro è risalito da oltre 1.30 agli attuali livelli, verso l’Euro e si appresta a fare lo stesso nei confronti dello Yen.

Forse la politica di Trichet sta cominciando a dare i suoi frutti sull’economia reale europea, a stare almeno agli ultimi dati appena comunicati. Ma anche appena un anno fa sembrò che sorgesse un’alba rosea per le economie della nostra area monetaria. Essa è tramontata, purtroppo, nei mesi successivi. Con qualche scetticismo i mercati ne hanno accolto l’apparente replica, appena annunciata. Quel che è certo è che l’espansione monetaria ha portato in Europa una bolla immobiliare paragonabile a quella americana, che ha risparmiato solo la Germania, dove essa era iniziata e finita dopo la riunificazione.

I mercati finanziari, dunque, non mostrano finora di credere alla nuova alba europea: le posizioni speculative contro l’euro e a favore del dollaro sono al momento assolutamente prevalenti, tanto da indurre qualche banca a consigliare i suoi clienti a spostare le vendite sullo Yen giapponese, che non è ancora sceso quanto l’euro perché i venditori non hanno ancora massicciamente prevalso sui compratori.

Gli operatori in cambi non sono gli unici a scommettere su un altro sostanzioso ciclo positivo per il dollaro. Mostrano di farlo anche coloro che comprano attività industriali, immobiliari o finanziarie. Essi hanno dato luogo a un massiccio flusso di denaro verso gli Stati Uniti, come provano i dati appena forniti dal Tesoro americano. Dagli stessi dati si evince che tale flusso è ora dominato dal settore privato, mentre le autorità monetarie sembrano aver diminuito i propri acquisti di carta del Tesoro americano e degli enti paragovernativi. A comprare attività reali e finanziarie negli Stati Uniti sono i soliti noti: investitori europei pieni di liquidità presa a prestito su un mercato, come s’è detto, reso agevole dalla politica di Trichet e dal risparmio in surplus; magnati del petrolio in Medio Oriente e delle altre materie prime altrove, beneficiati dal boom dei prezzi e incapaci di investirne i proventi a casa propria.

Alla massa degli scommettitori sul rialzo del dollaro si è altresì aggiunto il flusso dei profitti da investimenti americani all’estero, ai quali il presidente Bush ha concesso una vacanza fiscale se tornano negli Stati Uniti. Il termine di scadenza di essa è la fine dell’anno, quindi proprio in questi mesi se ne vedono gli effetti più marcati sul corso del dollaro.

Gli operatori in cambi hanno infine guardato alla situazione di politica economica negli Stati Uniti. Sulla politica monetaria, il passaggio delle consegne tra Greenspan e Bernanke, che avrà luogo alla fine di gennaio, aveva creato qualche timore e incertezza, relative al supposto “keynesismo” del nuovo Presidente della Fed, fondato sullo studio della sua ventennale produzione scientifica. Ma Bernanke, nella sua deposizione di fronte al comitato parlamentare che dovrà confermare la sua nomina, si è professato nemico dell’inflazione, accennando anche alla possibilità di dotare la Fed di un obiettivo dichiarato antiinflazionistico, come hanno fatto molte altre banche centrali, inclusa la Bce.

Ha reiterato, naturalmente, che la missione statutaria della Fed è quella di guardare anche allo sviluppo del reddito e della occupazione, e non solo all’inflazione, come si ritiene debba fare la Bce, ma l’impressione generale è che la politica di Greenspan, realizzata con una catena di aumenti del tasso sui Federal Funds, non si esaurirà con l’uscita di scena del vecchio “maestro”, la cui gloria si è di recente appannata solo perché la sua devozione alla causa repubblicana lo ha portato, secondo osservatori non sospetti come il Wall Street Journal, a ritardare la fine della grande abbuffata monetaria, scatenando una bolla immobiliare che non sembra ancora sotto controllo e permettendo ai “deficit gemelli”, questa costante della politica economica americana per gran parte degli ultimi decenni, di risalire dalle profondità nelle quali li aveva fatti precipitare la spericolata e fortunata politica economica di Bill Clinton e Robert Rubin.

Anche sulla impossibilità pratica di mettere sotto controllo questi due mostri nel breve periodo si basa l’euforia dei mercati a favore del dollaro. Gli Stati Uniti hanno, e continueranno ad avere, bisogno di denaro straniero per tamponare almeno precariamente i propri conti pubblici e la propria bilancia dei pagamenti. Non potranno dunque permettersi di remunerarlo poco. I tassi a breve – scommettono i mercati – dovranno perciò continuare a salire, e questo diventerà ancora più vero se anche Europa e Giappone torneranno a crescere a tassi meno modesti di quanto hanno fatto finora e se gli Stati Uniti non riusciranno a districarsi dall’impegno in Irak nel quale si sono volontariamente cacciati.

Nel decennio di Clinton, l’economia americana aveva mostrato, dopo vent’anni di relativo declino, di saper guidare il mondo intero sulla via della terza rivoluzione industriale. Oggi sembra, nelle mani della classe dirigente repubblicana, di voler tornare a risolvere i propri problemi con metodi e strumenti finanziari, anziché industriali, e con una politica estera fortemente aggressiva.
Nel frattempo, però, a Oriente, proprio la rivoluzione industriale dell’età di Clinton ha indotto un grandioso movimento socio economico e politico, che ha portato al risveglio di giganti come India e Cina. E’ di moda soffermare l’attenzione sul risveglio della Cina. Qui basterà quindi dire che esso è anche dovuto ad una politica cambiaria che ha stabilmente collegato il valore dello yuan a quello del dollaro, ormai da dieci anni. La lunga discesa del dollaro ha avuto effetti esilaranti sulla crescita delle esportazioni cinesi, che hanno però goduto soprattutto dell’epocale ingresso della Cina nel Wto. E, oltre alle esportazioni, anche le importazioni cinesi sono cresciute, per effetto della decisa politica di apertura internazionale voluta dalla dirigenza di Beijing. Così come sono volate in alto le importazioni di capitali esteri nell’Impero di mezzo.

Ora i mercati e l’intero mondo attendono con ansia di vedere se lo yuan seguirà il dollaro nella sua risalita, così come lo ha seguito nella discesa rispetto alle altre valute. In Europa e negli Usa abbiamo subito le conseguenze del balzo delle esportazioni cinesi. Esso è stato tanto eclatante da farci trascurare il fatto, pure importante, che esse hanno sostituito le esportazioni degli altri paesi orientali. La quota dell’Asia sulle importazioni dei principali mercati è infatti rimasta quasi immutata. Le grandi multinazionali giapponesi e coreane hanno infatti spostato la propria attività di esportazione equipaggiando le loro filiali cinesi e generando quindi un grandioso mercato di semilavorati e beni di investimento. Di quest’ultimo è stato capace di avvantaggiarsi anche il produttore per eccellenza di beni di investimento, la Germania: quel po’ di crescita che in quel paese ha avuto luogo negli ultimi anni è dovuta esclusivamente alle esportazioni, verso i paesi della moneta unica e la loro periferia, e verso la nuova Asia del risveglio dei colossi.

Un eccessiva concentrazione sul cambio dello yuan è pericolosa. Essa induce speranze fuori luogo sull’effetto taumaturgico di una rivalutazione cinese. Questo sarebbe vero solo se lo yuan si apprezzasse del cinquanta per cento l’anno per un buon numero di anni, nei confronti del dollaro e delle altre monete, abbandonando quindi il rapporto fisso con la moneta americana. Ma se l’exploit delle esportazioni cinesi fosse dovuto anche all’apertura della economia di quel paese, che l’ha condotta ad un rapporto commercio estero/Pil del 40% in pochissimi anni, partendo da una base quasi insignificante, bisognerebbe moderare le speranze sugli effetti di una rivalutazione cinese, anche robusta. E’ assai più probabile che, giunto a rappresentare il 15% delle esportazioni mondiali, il gigante asiatico debba fare i conti con la sostenibilità di questa posizione, in termini di equilibri interni.

Ciò non impedirà, tuttavia, nell’immediato, alle vittime industriali occidentali del successo cinese di levare al cielo proteste sempre più rumorose. L’arrivo sulla scena mondiale di un nuovo gigante non è mai avvenuto senza traumi, come insegnano i casi della Germania, degli Stati Uniti e del Giappone. La vecchia Europa sembra avere imparato dai suoi tremendi errori passati a far buon viso ai nuovi arrivati. Ma assai minor fiducia si deve nutrire nelle capacità di paesi come Giappone e Stati Uniti di evitare reazioni fuori misura. Per via della loro peculiare geografia elettorale, gli Stati Uniti, in particolare, hanno in passato ceduto, all’improvviso e drammaticamente, alle istanze del mercantilismo che vengono dal loro cuore industriale e agricolo.

Una rivalutazione del dollaro cade, ad esempio, come il contrario della manna dal cielo sull’industria americana dell’auto e dei suoi componenti, che si trova già sul limitare dell’insolvenza al cambio attuale. Alle elezioni per il parziale rinnovo del Congresso, che avranno luogo tra un anno, la rivalutazione probabilmente giocherà un ruolo assai più esplicito dell’ombra di Banquo, inducendo il governo a introdurre misure mercantiliste ancor più smaccate di quell’incentivo fiscale ai rimpatri di profitti delle imprese americane di cui abbiamo fatto cenno. Specie se i tassi a lunga, ancora anormalmente bassi, faranno un balzo in avanti, mettendo in difficoltà tutti i debitori americani, specie i titolari di mutui immobiliari. Sarà dunque una volta ancora la politica, aizzata dai traumi del mercato del reddito fisso, a dettare la fine del dollaro alto.

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