
(WSI) – In un libro da poco pubblicato, l’economista Benjamin Cohen [University of
California, Santa Barbara] si interroga sul “futuro del numero delle monete”.
Esiste una tesi “riduzionista” in merito: essa considera inevitabile la
riduzione del numero delle monete, per la quale giocherebbero le economie di
scala e l’erosione della sovranità nazionale connessa alla liberalizzazione
della finanza.
L’introduzione dell’euro, con la costruzione di un’area
politico-monetaria enorme nonostante la “frammentazione” nazionalistica, ne
sarebbe un vistoso esempio. Ma Cohen non è d’accordo: è vero che dal punto di
vista della “domanda” [cioè, di chi la usa] si va verso una riduzione del
numero
delle monete, ma è altrettanto vero che chi la “offre”, cioè gli Stati, sono
interessati a avere una propria moneta, per la possibilità di una propria
politica valutaria e monetaria. Come per le lingue ci saranno poche “lingue che
contano”, così per la moneta ci saranno poche “monete che contano” [dollaro,
yen, euro], ma non mancheranno mille lingue e mille monete. [Benjamin Cohen,
‘The Future of Money’, Princeton University Press, 2004 – Fabrizio Galimberti,
“Il Sole-24 Ore”, 4 luglio 2004].
Lo scenario prefigurato da Cohen, della inestinguibile pluralità di monete
nazionali e territoriali dentro una tendenza globale a pochi riferimenti
monetari “forti”, sembra quello di una moltiplicazione di regimi a doppia
moneta. In ciascun territorio, alla moneta nazionale si affiancherebbe una
moneta transnazionale di riferimento. Un regime, per fare un esempio semplice
anche se non esatto, simile a quello vissuto in Italia durante e fino
all’introduzione dell’euro come moneta unica con la contemporanea circolazione
della lira. Dal 1° gennaio 1999 l’euro era la valuta legale dei Paesi aderenti
all’Unione monetaria europea e sostituiva le singole valute nazionali secondo i
tassi irrevocabili di conversione fissati dalle istituzioni comunitarie.
Fino al
31 dicembre 2001 fu previsto un periodo transitorio durante il quale le singole
valute nazionali restavano in vigore. Durante il periodo transitorio, l’euro
poteva essere utilizzato solo come moneta scritturale, non essendo ammessa
circolazione di monete e banconote. Al termine del periodo transitorio, le
singole valute nazionali cessarono di avere corso legale, salva la possibilità,
fino al 28 febbraio 2002 per la lira, di continuare ad utilizzare le monete e le
banconote in circolazione (periodo di doppia circolazione). In realtà, a me
sembra che un regime di doppia moneta sia quello a cui siamo già sottoposti
tutti, non certo nel senso della circolazione ma in quello del valore, e dei
prezzi. La ‘invisibilità’ della presenza di una doppia circolazione non
indebolisce certo il suo carattere operativo e ‘cogente’.
C’è stato un altro momento storico abbastanza recente in cui l’Italia ha
vissuto
una doppia [e tripla e quadrupla] circolazione monetaria. Nel 1943, in
preparazione dello sbarco in Sicilia, gli Alleati costituirono l’AMGOT [Allied
Government Occupied Territory]. Tra le varie “divisioni” a cui spettava
governare il territorio, fu istituita quella finanziaria, la Financial. Le
autorità alleate sapevano che nell’isola ridotta allo stremo anche le banche
avevano esaurito la scorta di banconote. Fu perciò istituita una banca
militare,
l’Allied Military Financial Agency [AMFA} con il compito di emettere cartamoneta
destinata alle spese correnti e al soldo dei militari. In tal modo, prima ancora
dello sbarco, incominciarono a circolare dollari con il sigillo giallo, per
distinguerli da quelli ufficiali con il sigillo blu. C’era pure uno scambio
ufficiale con la lira: 100 il dollaro. Al mercato libero, il dollaro
raddoppiava. Verso la fine di giugno si aggiunsero le Allied military liras, che
sarebbero diventate le “AM-lire” e cominciarono a circolare sin dallo sbarco in
luglio.
Le Allied Military Line Currency della serie 1943 furono stampate negli
Usa da due differenti tipografie, la Bureau of Engraving and Printing [BEP] e la
Forbes Lithograph Corporation [FLC]. La differenza è valida solo per
l’emissione
del 1943. I biglietti si differenziano perché quelli della BEP sono privi di
indicazioni dello stampatore, mentre quelli della FLC hanno una piccola “f” nel
ricciolo inferiore destro sopra al valore. Una enorme liquidità venne immessa
sul mercato con effetti inflattivi. I tagli erano da 1, 2, 5, 10, 50, 100, 500 e
1.000. Sul retro, ogni biglietto pubblicizzava le quattro libertà americane:
Freedom of Speech [libertà di parola], of Religion [di fede], from Want [dal
bisogno], from Fear [dalla paura]. Contemporaneamente alle AM-lire, gli inglesi
fecero un analogo tentativo di emettere moneta di occupazione, pence, scellino e
sterlina della British Military Authority, che però ebbero scarsa fortuna per
la
difficoltà che gli italiani incontrano a conteggiare una moneta suddivisa su
base non decimale. I prezzi si infiammarono. A ridosso dello sbarco le banconote
furono poi stampate in Tunisia, ma con la conquista di Palermo le autorità
statunitensi ebbero a disposizione il Banco di Sicilia, del quale già nei
preparativi dell’invasione veniva prefigurato l’impiego come Istituto di
emissione.
Trasformato in Banca centrale, il Banco di Sicilia guadagnò un
potere
enorme. Le AM-lire passarono per tutte le mani degli italiani fra il 1943 e il
’45. Quanto meno, il Sud ne fu invaso [Malaparte ne ‘La pelle’, scrive che
amministravano “i cuori e i corpi”] e progressivamente i territori “liberati”,
mentre nella Repubblica Sociale continuavano a circolare le lire. Nel 1944
intanto la Banca d’Italia stampò la cosiddetta “serie della Luogotenenza”, in
cui c’erano anche i biglietti da 500 e 1.000 lire, mai messi in circolazione. Le
AM-lire furono dichiarate fuori corso soltanto nel 1950, con la legge del 5
gennaio n. 3 del ministro del Tesoro. [Alfio Caruso’, Arrivano i nostri’, 2004,
Longanesi – http://www.infol.it/monete/money.htm].
È difficile immaginare oggi un controllo totale della massa monetaria, per via
della velocità dei suoi movimenti, della globalizzazione, in breve
dell’emergere
di un suo carattere selvaggio. C’è un carattere permanente, ‘enduring’, di
“occupazione” nella selvatichezza dei movimenti della moneta finanziaria. Si
attenua fortemente la differenza tra mercati interni ed esterni [almeno come li
intendeva la teoria classica del ‘commercio estero’], ma si ripropone, e con
approfondimento contraddittorio, la questione dei ‘prezzi interni ed esteri’,
legati come sono i primi alla produzione materiale di beni e i secondi ai
movimenti speculativi del plusdenaro [o del capitale finanziario]. I governi
reagiscono ai movimenti monetari o tendono a impedirli, ma non possono sempre
prevederli né sistematizzarli. La moneta perde vieppiù il suo carattere di
rappresentazione di quantità verificate o verificabili [M1], caratterizzandosi
come segno di accumulazione, e quindi di speculazione [di falsificazione] [M2,
M2 estesa, derivati].
Ovvero s’è già creata una ‘doppia moneta’, una come
regolatrice dei prezzi ed una come forma della ricchezza. Non esiste quindi una
sola serie di valori di equilibrio [parziale o aggregato]. Esistono piuttosto
serie diverse di prezzi per serie diverse di quantità [di beni, valori], e
quindi l’equilibrio non è più possibile dal lato della produzione e dello
scambio, e viene imposto forzosamente dal lato della circolazione [moneta]. Dai
conflitti e dagli aggiustamenti tra queste due forme di moneta dipendono la
maggior parte degli eventi economici che attraversano la nostra giornata
lavorativa [in generale possiamo dire che la maggior parte del lavoro è pagato
con moneta interna, più vile, mentre il plusdenaro – la ricchezza – si muove
sulla moneta esterna].
La somma dei prezzi [con riferimento a merci e partite]
d’ogni nazione è ormai inferiore rispetto la massa monetaria in movimento [in
entrata e uscita] e ne mostra in alcuni casi il segno di dipendenza reale dal
governo mondiale della moneta. Eppure i prezzi [e le imposte dello Stato]
aumentano all’interno, anche se la massa monetaria interna viene tenuta sotto
controllo, e anzi, a massa monetaria costante, l’aumento dei prezzi, senza
corrispondente aumento di salari e redditi, diventa motore della crescita dei
profitti e di una forte ridistribuzione della ricchezza in maniera polarizzata,
attraverso anche la distruzione progressiva del risparmio [di quella parte di
plusdenaro socializzatasi]. La vanificazione del risparmio [del potere del
risparmio] dei lavoratori è la faccia complementare della lotta al potere dei
salari.
Alla stabilità della moneta come circolante interno non corrisponde la
stabilità dei prezzi, in particolare di quelli delle merci immateriali che si
formano su un mercato globale [e ciò rende fumoso ogni controllo sui prezzi che
può essere solo interno]. La lotta all’inflazione [il controllo del deficit]
più
che recessione e disoccupazione provoca quindi una ‘riappropriazione di
plusdenaro’ da parte dei maggiori detentori d’esso. [‘Lavori e merci, prezzi e
monete’, “deriveapprodi” 12-13, 1996]
Qual è, in breve, la mia proposta? La reintroduzione della lira come “moneta
nazionale”, ma solo come moneta della contabilità nazionale. Non come moneta
circolante. Per il circolante va bene, va benissimo l’euro, per la sua
“qualità”
di moneta transnazionale, di moneta della cittadinanza europea. È uno
straordinario vantaggio per la mobilità dei cittadini e dei lavoratori europei
quello di potersi trovare “a casa” dal punto di vista dell’acquisto di beni e di
scambio in qualunque luogo europeo. Dal punto di vista della domanda l’euro
funziona. Dal punto di vista “politico” l’euro funziona, e probabilmente
funzionerebbe di più ancora se vissuto come un circolante dei cittadini,
sottratto cioè alla BCE, al “controllo” e al potere della Banca europea
centrale
e dei suoi gnomi. Si dovrebbe cioè proprio invertire la storia del circolante:
per i prezzi interni [e in questo senso, interna può essere considerata
l’Europa
come spazio politico e di diritti] ci occorre una moneta forte, che tenda a
stabilizzare e equilibrare la serie dei valori e dei prezzi e quindi anche il
potere d’acquisto dei salari, sottraendoli alle manovre speculative dei prezzi
esteri, cioè del plusdenaro.
Mentre invece si potrebbe reintrodurre la lira per
i rapporti commerciali che l’Italia tiene e terrebbe con il resto del mondo [a
cominciare dalle nazioni europee], con il resto delle monete. La lira insomma
dovrebbe acquisire fino in fondo una sua dimensione “scritturale”: potremmo
comprare e vendere in lire i nostri prodotti: la nostra bilancia commerciale se
ne avvantaggerebbe. La lira dovrebbe fluttuare, a seconda delle convenienze.
Dovrebbe seguire cioè una sua cambiabilità con lo stesso euro come una
qualunque
altra moneta e non in maniera “fissa”. Nella nostra vita quotidiana questa
fluttuazione non avrebbe alcun senso, e solo nella nostra vita “monetaria”
acquisirebbe significato. I nostri risparmi dovrebbero essere in euro, le nostre
tasse, e insomma non dovrebbe cambiare proprio nulla dal punto di vista della
“contabilità sociale”. Solo sui prezzi “esteri” avrebbe valore la lira,
sull’acquisto e la vendita di beni, servizi, valori. Le obbligazioni e i titoli
di Stato dovrebbero essere in lire. I loro rendimenti seguirebbero una doppia
oscillazione [quello che, in parte, succedeva con il serpente monetario – il
‘currency snake’ – dal 1972 prima dell’introduzione dello SME, il Sistema
monetario europeo voluto da Francia e Germania nel 1979]: una tra la moneta
“interna” [l’euro] e quella “contabile” [la lira], e una tra la lira e le monete
del mondo.
Io credo che potremmo ricavarne solo vantaggi. E anche i conti
pubblici dovrebbero essere in lire. Forse verrà il mal di testa ai ragionieri
dello Stato, ma sono pagati apposta. Se uno pensa che i “cervelloni” del Tesoro
hanno partorito come proposta “creativa” quella di introdurre il biglietto da un
euro invece della moneta di conio – con plauso di non pochi politici – certo
prende lo sconforto, ma. Si potrebbe finanziare un ciclo virtuoso di spesa
pubblica tutta in lire. E infine, penso che pure il mercato azionario, e i suoi
titoli, dovrebbe svolgersi in lire. Anche ai broker verrà il mal di testa, ma
pure loro sono pagati apposta.
Decidere l’introduzione di una doppia moneta,
ripristinare e aggiornare la lira, non contravverrebbe alcun vincolo politico
europeo e non tornerebbe indietro la pax monetaria dell’euro. Per un’economia
dai caratteri volatili come quella italiana è troppo penalizzante la rinuncia a
una propria moneta nazionale. Non siamo la Germania e non siamo la Francia.
D’altronde, la Gran Bretagna continua a mantenere la sterlina e a stare nella
comunità europea. Un po’ a modo proprio, s’intende.
[www.lanfranco.org]