Per la politica il caso Parmalat non è ancora scoppiato o forse non esiste. Questione di punti di vista o di opportunità. Si attende di capire, con cautela e, forse, con qualche imbarazzo come si svilupperà la vicenda. Che non è chiusa, nonostante l’azienda abbia annunciato di aver rimborsato (il termine ultimo scadeva lunedì prossimo) il bond da 150 milioni.
A dire la sua (quasi isolato) è stato Umberto Bossi, leader della Lega: «Sono le conseguenze dell’euro, la cui introduzione questa gente ha sostenuto. La moneta unica permette di avere i soldi dalle banche a livello nazionale a un tasso basso, consente di andare in Lussemburgo a stampare un po’ di bond, e poi scambiare sul mercato internazionale questi bond». Per il resto un sostanziale silenzio assordante, rotto solo da qualche allarme (Pierluigi Bersani, responsabile economico dei Ds) sui rischi di una estesa «finanza parallela» che possa travolgere assetti industriali e, con essi, migliaia di posti di lavoro, ed effetto a cascata su tutto il sistema agroalimentare nazionale, dato il ruolo dell’azienda.
Ma di ricette, proposte, non ne sono arrivate. Certo la mancanza di trasparenza nei conti del gruppo di Collecchio rappresenta di per sé un limite all’analisi, ma l’impressione è che nessuno voglia fare i conti con il caso Parmalat soprattutto perché rappresenta il secondo grave episodio di cattiva finanza dopo quello della Cirio e il clamoroso avviso di garanzia al presidente di Capitalia, Cesare Geronzi. Vicende diverse certo, con «capitani di sventure» non paragonabili, come le rispettive strutture industriali.
Ma due casi così ravvicinati nel tempo possono fare pensare che non di episodi eccezionali si tratti. Già qualcuno, sottovoce, nelle lunghe pause a Montecitorio durante la votazione della legge Finanziaria, comincia a ragionare sull’ipotesi che lentamente si stia assistendo alla scoperta di un sistema nel quale il ricorso da parte delle imprese (in particolare di quelle di piccole e medie dimensioni) a più istituti di credito finisce per nascondere il reale stato di indebitamento delle aziende stesse. Un fenomeno sistemico, quindi, con potenziali effetti sismici.
Raccoglie consensi ma anche perplessità la doppia iniziativa dei presidenti della Commissione Attività produttive e Finanze della Camera, Bruno Tabacci (Udc) e Giorgio La Malfa (Gruppo misto) di una proposta di legge per limitare la presenza delle imprese negli organi di controllo delle banche, e di un’indagine conoscitiva parlamentare sempre sul rapporto tra istituti di credito e aziende industriali.
La proposta di legge dovrebbe impedire agli imprenditori di far parte del consiglio di amministrazione o del patto di sindacato di una banca della quale siano al contempo azionisti e debitori con un livello, con il medesimo istituto, del 10-20% della propria esposizione complessiva. L’indagine parlamentare piace poco, soprattutto a sinistra, perché – si spiega – nasce con una tesi già ben definita (quella, per capirci, di un intreccio perverso) e, dunque, con conclusioni quasi scontate.
La storia della Parmalat, come quella della Cirio, conferma un vecchio approccio della politica con il sistema delle imprese e viceversa, nel quale la forza dell’azienda troppo spesso dipende da questi legami. In molti pensano che non sia una casualità la cena – riferita da Repubblica – tra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e Calisto Tanzi e il successivo possibile via libera del Tesoro ad un rimborso anticipato di crediti Iva pari a circa 40 milioni di euro. Sarebbe – se confermato – un cattivo esempio. Tutte le piccole e medie imprese che chiedono da oltre un anno e mezzo i rimborsi Iva potrebbero pensare di dover avvicinarsi al crac per riceverli. O no?
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