Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Re Fahd d’Arabia Saudita è morto dopo un’agonia durata nove anni. Nel 1995, quando lo colpì un ictus devastante, il (suo) Regno del Petrolio vedeva finalmente rimarginarsi la ferita della guerra contro Saddam («una vittoria senza trionfo») per finanziare la quale l’Arabia s’era indebitata con le grandi banche internazionali. Certamente Saddam non era amato a Corte né a livello popolare e tuttavia l’ammucchiata bellica che vide incartarsi nella bandiera americana sinanco Assad di Siria, aveva turbato la gente: dal ministro al mercante, dall’ulema allo scriba.
Forte, infatti, essendo nei sauditi il senso dell’appartenenza (alla comunità islamica) non c’è da stupirsi che pur paventando la prepotenza armata di Saddam, non fossero entusiasti di sparargli. Lasciarono, non senza complessi di colpa, che a farlo fossero i soldati della «coalizione»: in fatto gli Stati Uniti, coi loro GI.
Nella convulsa vigilia di guerra si appalesò clamorosamente la divergenza di vedute tra il Sovrano, Re Fahd giustappunto, e il suo fratellastro-erede Abdullah. Costui, ostentatamente, disertò l’aeroporto di Ryad dov’erano convenuti principi e dignitari ad accogliere l’allora ministro americano della difesa Cheney. Di più: allorché i marines cominciarono a sbarcare, platealmente Abdullah lasciò Gedda, sede estiva del governo, per la sua tenda nel deserto. Per metterlo in riga, Fahd «lo pregò» di portare il saluto della casa regnante e del paese al contingente saudita. Ubbidì, Abdullah, ma si valse dell’occasione per esprimere il suo rammarico «per il fatto che i soldati venissero contrapposti agli iracheni» e non mandati a difendere «i diritti usurpati del popolo palestinese».
Diventato reggente-padrone per l’oscillare drammatico della salute di Re Fahd fra crisi demolitrici e inopinate migliorie, Abdullah si chiamò fuori dalle spedizioni americane nella Regione del Petrolio e last but not least negò agli Usa l’uso della base Prince Sultan. Questo alla vigilia dell’invasione americana dell’Irak. Ancora: dopo lo stupro delle Torri Gemelle ad opera di terroristi-suicidi di nazionalità saudita, Abdullah reagì alle deplorazioni della stampa americana. Con parole di fuoco: «E’ in atto una brutale campagna contro di noi. Essa sta a dimostrare odio sconsiderato nei confronti dell’islam. La nostra adesione all’islam è senza riserve», proclamò. Ebbene, qualche settimana fa, Abdullah è volato a Washington, s’è persino sprecato nell’accolade con un imbarazzato Bush. Insieme han recitato le formule d’uso volte a sottolineare «amicizia, comprensione, collaborazione».
Come mai, perché? Si trattava di sistemare le ultime tessere del mosaico, e questo post mortem di Re Fahd. Il sovrano innamorato dell’Occidente (e secondo i maligni: del suo alcol da bere), lo statista che nel 1981 cercò (vanamente) di varare al vertice arabo di Fes il suo «piano di pace» che al punto 7, con una acrobazia semantica, riconosceva Israele, è oramai al cospetto di Dio, finalmente in pace. E il suo successore si sta adoperando per raffreddare il pantano iracheno: buone fonti vogliono che sia lui il deus ex machina della trattativa fra Usa e «resistenti iracheni nazionalisti» per una «composizione onorevole» dello scontro che impedisce, col suo carico quotidiano di morti ammazzati e di sabotaggi, la costruzione di un Irak pacifico, democratico.
Lo scenario che il successore di Fahd ha delineato a Bush nel suo inopinato blitz alla Casa Bianca, se fecondo di risultati (come Abdullah auspica con convinzione) aprirebbe una dignitosa uscita dal pantano iracheno. Ma non è tutto: Re Abdullah, il beduino dalla vita spartana, teme «l’estrosità catastrofica» di certi consiglieri, palesi e/o occulti, di Bush che cercano sì l’uscita dei GI dall’Irak asserendo, però, che questa passa per Teheran.
Re Abdullah ancorché afflitto da una (lieve) balbuzie ha parlato chiaro: la turbolenta maggioranza sciita in Irak non è certo gradita a Ryad ma non è una guerra contro l’Iran, la chiave della pace. Il diritto di Israele alla sicurezza non può prescindere dalla pace col popolo palestinese. Tutto il resto «è follia»: la chiusura dei pozzi. Una catastrofe globale.
Copyright © La Stampa per Wall Street Italia, Inc. Riproduzione vietata. All rights reserved