La questione dell’evasione fiscale in Italia torna periodicamente ad essere centrale nella discussione politica. Si prospettano tuoni e fulmini contro gli evasori, si stimano entrate stratosferiche nelle casse pubbliche come conseguenza di rinnovati sforzi alla lotta all’evasione, e poi nulla succede: gli evasori evadono e i lavoratori dipendenti pagano.
La battaglia all’evasione è ovviamente prima di tutto una battaglia di giustizia, equità, e anche di civiltà, nel senso che è difficile fondare una società civile su una distribuzione così eterogenea del carico fiscale come in Italia. Stime più o meno accurate danno un sommerso in Italia dell’ordine del 26% del Prodotto interno lordo.
Detto questo, compito di un economista è cercare di andare oltre le questioni etiche e se possibile valutare l’impatto di politiche economiche vere o presunte. A questo proposito vari economisti, tra cui io stesso su queste colonne e Michele Boldrin su «Il Fatto», hanno provato a portare l’attenzione del dibattito sul fatto che l’evasione fiscale si colloca, nel nostro Paese, nel contesto di una elevatissima pressione fiscale, e che questo implica che una efficace lotta all’evasione debba essere associata ad una riduzione del carico fiscale per avere effetti positivi sull’economia del Paese. Luca Ricolfi lo ha ben spiegato l’altro ieri, con dovizia di argomentazioni, in un editoriale su queste colonne che ha generato un interessante dibattito.
Conviene sempre dare un’idea della questione di cui si dibatte attraverso i numeri di riferimento. Uno studio, ormai non aggiornatissimo, dell’Agenzia delle entrate stima che le tasse evase corrispondano al 38% delle tasse pagate. La pressione fiscale in Italia nel 2012 sarà di circa il 43% (punto decimale in più o in meno). Un paio di passaggi algebrici implicano quindi che se tutti pagassero le tasse, ceteris paribus, la pressione fiscale raggiungerebbe il 60%. Nessun Paese al mondo, che io sappia, ha una pressione fiscale del genere. La Svezia è al 46%. Non vi è dubbio che gli effetti sulla competitività delle nostre imprese sarebbero notevoli e che notevoli sarebbero anche gli effetti recessivi dovuti al fatto che l’incidenza delle nuove tasse cadrebbe comunque sui consumatori.
Stefano Lepri, ieri su queste colonne, argomenta che gli effetti del recupero dell’evasione sulla competitività delle imprese italiane sarebbero in realtà ridotti perché la lotta all’evasione avverrebbe in modo graduale, perché le imprese che evadono producono beni per il mercato interno e sono protette. Purtroppo questi argomenti non cambiano affatto la questione in modo sostanziale. Se le imprese che evadono sono protette dalla concorrenza internazionale avranno più spazi (potere di mercato) per riversare l’incidenza delle nuove tasse sui consumatori. Non si scappa: o non possono aumentare i prezzi, e quindi falliscono, o possono farlo e quindi pagano in larga parte i consumatori.
Il commento di Lepri però tocca un punto fondamentale: l’evasione è un costo per la struttura produttiva italiana. Questo perché le imprese che evadono il fisco tendono a rifuggere «da tecnologie avanzate, o da una organizzazione aziendale stabile, su vasta scala, con prezzi chiari, perché attirerebbero l’occhio del fisco». Concordo assolutamente. Io aggiungerei anche che l’allocazione dei talenti in Italia è inefficientemente distorta dall’evasione: troppo lavoro autonomo, a tutti i livelli, dai negozianti agli avvocati.
E’ difficile stimare i costi di queste distorsioni, ma sono probabilmente elevatissimi. Esse costituiscono una imprescindibile ragione in favore di una lotta serrata all’evasione (come se le ragioni di giustizia ed equità non fossero sufficienti). E’ importante farlo notare. Allo stesso modo, è fondamentale anche notare che la lotta all’evasione senza una appropriata riduzione del carico fiscale avrebbe costi enormi sul sistema produttivo del Paese.
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