(WSI) – Molti libri di storia europea iniziano definendo l’Europa come una penisola dell’Asia. Le pianure che si estendono sopra i Pirenei, le Alpi e i Carpazi sono un campo aperto che si allarga senza ostacoli lungo tutta l’Eurasia settentrionale fino al Pacifico. La parte europea di questa immensa pianura, la più estesa del pianeta, ha prodotto la fusione tra l’eredità culturale mediterranea e le genti provenienti da oriente e ha proiettato fuori dall’Europa il risultato di questa elaborazione.
L’Europa è fatta di piccole patrie ma resta ancora oggi un sistema aperto sul mondo. Gli Stati Uniti, economicamente, sono molto più chiusi e autosufficienti. Finanziariamente, invece, gli Stati Uniti dipendono dal risparmio asiatico mentre è l’Europa a essere autosufficiente. Gli Stati Uniti hanno immense risorse energetiche, Eurolandia non ha una goccia di petrolio. Se si chiudesse al resto del mondo, Eurolandia resterebbe al gelo, ma potrebbe andare avanti in perfetta solitudine come sistema finanziario chiuso.
Grazie all’attivo commerciale tedesco e olandese, perfettamente bilanciato dal passivo di tutti gli altri paesi, Eurolandia ha trascorso tutta la sua breve storia ed è tutt’oggi in una situazione di pareggio delle partite correnti. La Cina esporta merci e importa dollari. L’America importa merci ed esporta dollari. L’Europa non ha bisogno di capitali esterni e non ne esporta di propri. Questa situazione di equilibrio le permette di non tenere riserve valutarie mentre l’euro, per contro, è ricercato e apprezzato come valuta di riserva da un mondo inondato di dollari.
La crisi di Eurolandia ha rilevanza sistemica e fa tremare il mondo. Stati Uniti, Cina, Canada, Regno Unito e Fondo Monetario cercano in tutti i modi di commissariare Eurolandia per costringerla a sistemare le sue cose. Se queste enormi pressioni non hanno finora prodotto grandi risultati è perché la crisi europea è fondamentalmente un affare di famiglia.
Diceva Brecht che la semplicità è la cosa più difficile a farsi. Vista dall’esterno, in particolare dall’America, la crisi europea potrebbe essere risolta in pochi minuti. Per Krugman basterebbe che la Bce dichiarasse il suo sostegno incondizionato e illimitato alla carta governativa di tutta Eurolandia. La fatica di un comunicato e, esagerando, di una conferenza stampa. Altri hanno suggerito elegantemente che dal Consiglio europeo esca l’impegno formale all’unificazione fiscale, magari nel 2025. Un tempo lunghissimo per preparare tutto per bene, ma già l’annuncio calmerebbe immediatamente i mercati.
Le crisi di bilancia dei pagamenti si risolvono in genere velocemente perché sono crisi nei confronti dell’esterno. In America Latina negli anni Ottanta o in Asia nel 1998 non c’erano i soldi per pagare il debito estero contratto dagli stati o dalle imprese e questo provocò aggiustamenti veloci, come quando in famiglia non c’è più un soldo in cassa e si deve correre tutti quanti a cercare il primo lavoro che capita. La famiglia ricca, per contro, può permettersi dispute interne senza fine su un’ingente eredità e fare emergere nel contenzioso questioni di puntiglio e di principio. In un palazzo di ricchi i litigi su chi debba sobbarcarsi le spese per rifare il tetto possono andare avanti anni proprio perché tutti hanno i soldi per pagarsi un avvocato.
Le tre questioni su cui si discute all’infinito da mesi e su cui si attende con nervosissima ansia una risposta lunedì mattina sono contemporaneamente vitali e inessenziali. Grecia, garanzie su Bonos e Btp e ricapitalizzazione delle banche sono problemi seri, ma sono in realtà conflitti di attribuzione e redistribuzione di oneri e rischi. Il condominio in cui non si raggiunge l’accordo avrebbe i soldi per ripararne dieci, di tetti. L’Europa ha i soldi per sistemare tutto da sola e si farà prestare qualcosa da fuori più che altro per dare fiducia ai mercati. Per chiedere fiducia bisognerebbe però incominciare ad averne, rispettando gli impegni presi con i partner e smettendo di diffidare gli uni degli altri.
La Grecia, per cominciare, è un problema quantitativamente modesto. Se la Grecia avesse fatto sei mesi fa quello che sarà costretta a fare adesso e se la Germania non avesse fatto del coinvolgimento delle banche una questione di portata cosmica, gli incontri tra la Troika e il governo di Atene genererebbero le stesse emozioni delle verifiche periodiche che il Fondo Monetario effettua continuamente con i paesi che aiuta. Per fare scucire 30 miliardi alle banche e spaventare i mercati si dovrà adesso mettere il decuplo a sostegno di Bonos e Btp. Non bastando, ora che le banche bene o male i 30 miliardi li hanno trovati, si vuole ricominciare il giro chiedendone loro ancora altrettanti. E’ come spendere 300 di avvocati per recuperare un credito di 30, una questione di principio.
Alla fine, lunedì o nei giorni successivi, una soluzione verrà trovata. Il taglio di capelli sul debito greco non sarà più del 21 per cento ma non sarà nemmeno del 50 richiesto dalla Germania. Sarà a metà strada e, per carità, rigorosamente volontario, altrimenti si fanno scattare i Cds, mettendo in crisi seria qualche banca che ne ha venduti troppi.
Gli altri due problemi, debito sovrano e banche, verranno giustamente affrontati insieme. Le ipotesi che circolano fanno venire in mente Kotlikoff e la sua tesi che il debito è un problema linguistico, non reale. Le acrobazie concettuali su cui si discute potrebbero comunque avere effetti positivi.
In pratica, invece di fare la cosa semplice di costringere le banche a svalutare i titoli italiani e spagnoli, si farà la cosa barocca di alzare le loro ratio patrimoniali permettendo loro di mantenere sui titoli la valutazione che preferiscono.
Dal canto loro le banche, invece di raccogliere nuovo capitale facendosi odiare dai loro azionisti, raggiungeranno le ratio richieste diventando più piccole. Che cosa ridurranno sull’attivo, i titoli governativi o i finanziamenti alle imprese e i mutui? Se venderanno i titoli ne faranno scendere ancora il prezzo, mettendo nei guai i paesi emittenti e rendendone più costoso il sostegno. Se ridurranno i finanziamenti alle imprese, si dice, provocheranno una recessione che complicherà tutto e farà scendere comunque anche il valore di Btp e Bonos.
In realtà il cerchio verrà probabilmente quadrato in questo modo. Le banche ridurranno drasticamente i prestiti alle grandi imprese, che si rivolgeranno al mercato obbligazionario. Le banche francesi, ad esempio, richiederanno indietro soldi ai campioni nazionali come Gaz de France o Edf e gli investitori privati europei, che sono pieni di liquidità e arricciano ormai il naso perfino sui titoli di stato francesi, saranno lietissimi di sostituirsi alle banche.
Un ottimo studio di Fitch appena pubblicato confronta gli Stati Uniti, dove le imprese si finanziano per due terzi con obbligazioni e solo per un terzo in banca, con l’Europa, dove avviene esattamente il contrario. Nel giro di poco tempo, secondo Fitch, l’Europa si americanizzerà, con vantaggi rilevanti per tutti. Le banche useranno meno leva e si dedicheranno meglio a finanziare la piccola impresa, il negoziante dell’angolo e i compratori di case, tutti compiti che il mercato finanziario non saprebbe svolgere.
Le banche, quindi, non venderanno i titoli di stato, che continueranno a essere considerati ufficialmente a rischio zero e a non richiedere capitale. Per rassicurare i mercati, che al rischio zero non ci credono più, si garantiranno parzialmente le nuove emissioni di Italia e Spagna con i soldi dell’Efsf. La garanzia, essendo parziale, permetterà con 200-300 miliardi di coprire più di un trilione di nuove emissioni, una quantità rispettabile.
E’ possibile che alle banche vengano anche assegnati d’ufficio soldi obbligatoriamente convertibili in azioni a una certa data futura. Questi soldi li metterebbero gli stati o l’Efsf, sul modello della Tarp americana di due anni fa. Le banche che non volessero un giorno trovarsi l’Europa tra gli azionisti avrebbero qualche anno per raccogliere capitale e riscattare le convertibili. Il vantaggio è che non sarebbero costrette a cercare soldi adesso e potrebbero aspettare quotazioni più alte e mercati più disponibili.
Come si vede, tutto resterà in famiglia, come è stato finora. L’italiano e lo spagnolo che non vogliono più Cct comprano titoli tedeschi, non extraeuropei.
La Germania raccoglie i soldi italiani e li mette nell’Efsf, il quale garantirà i titoli italiani e spagnoli che verranno sottoscritti dalle banche europee, che a loro volta chiederanno indietro soldi alle grandi imprese. Questi soldi li metteranno gli investitori europei, ai quali i Bund non bastano, perché non ce ne sono abbastanza.
Insomma un sistema chiuso in cui tutti prendono il posto di qualcun altro senza che i saldi finali cambino. La cosa funzionerà, probabilmente, ma il sistema sarà sempre soggetto a periodiche crisi di sfiducia. Per una soluzione strutturale occorrerà una rigorosa e prolungata virtù fiscale da parte di Italia e Spagna, con una lenta ma costante riduzione del debito. Conforta che, nei due paesi, ci sia un consenso molto ampio su questo punto.
I mercati, in questa fase, si aspettano qualche primo risultato ma non chiedono la luna. Anche in caso di parziale delusione la volatilità sarà frenata da due fattori. Il primo sarà la prova d’appello del G20 del 4 novembre. Il secondo sarà il flusso ininterrotto dei dati trimestrali sugli utili, durante il quale le borse tendono normalmente a muoversi poco finché non hanno chiara la tendenza generale.
Lo scenario più verosimile resta quello di un accordo ampio e sufficientemente credibile e le intense discussioni di questi giorni, più che preoccupare, indicano che si sta facendo sul serio. Se sarà così, i mercati azionari saranno in grado di difendere i livelli raggiunti con il rialzo recente anche nel caso sempre più probabile in cui i dati macro che arriveranno nei prossimi due mesi confermino l’ipotesi di un temporaneo rallentamento della crescita. Eventuali strappi sopra i livelli attuali saranno comunque occasione per alleggerimenti prudenziali.
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