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ORA I TASSI AMERICANI SALIRANNO

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(WSI) – «La reazione dei mercati al voto mi pare molto ragionevole: positiva perché la conferma di Bush è una promessa di stabilità in una fase che rimane comunque di crescita. Ma senza euforia perché non c’è nessun boom in vista né il presidente ha promesso di rivoluzionare le sue strategie. La scelta di rendere permanenti i tagli fiscali che erano stati introdotti all’inizio con un orizzonte limitato è molto importante, non era scontata: ma il mercato non percepisce cambiamenti sensibili».

Per John Lipsky, capo degli economisti di JP Morgan Securities, la banca da sempre più vicina all’Amministrazione americana, ora fusa con la Chase, nel secondo mandato Bush dovrà fronteggiare molti problemi, ma ha i margini per gestirli senza grossi traumi.

La Cina, che diffidava di un Kerry deciso ad assumere posizioni più rigide nei negoziati commerciali internazionali, apprezza la conferma di Bush. Ora lo aiuterà a ridurre gli squilibri dell’economia americana, magari accettando uno slittamento del dollaro anche rispetto alle valute asiatiche? Per Lipsky alcuni interventi sui cambi ci saranno, «ma la questione è in che tempi e in che misura. Il Giappone ha già smesso di intervenire sul mercato da tempo. Alla Jp Morgan riteniamo che Pechino si muoverà nei prossimi 3-6 mesi. Ma saranno cambiamenti relativamente modesti e controllati. Credo siano sinceri quando dicono di voler introdurre gradualmente elementi di mercato nel loro sistema finanziario, anziché continuare a basare tutto su un’economia governata da meccanismi amministrativi. Ma per evitare conseguenze dannose, questo processo dovrà essere molto graduale.

Insomma, tra dollaro e valute asiatiche i rapporti potranno cambiare ma non in modo significativo e per ora la Cina non smetterà di accumulare riserve nella valuta Usa».
L’economista della Jp Morgan va più in là: «Noi riteniamo che da qui alla fine del 2005 i tassi sui “federal funds” cresceranno fino al 4%, molto più di quanto il mercato sembra aspettarsi. Se questo avverrà, anche lo scetticismo sul dollaro tenderà a dissolversi».

Nei giorni scorsi Kenneth Rogoff, economista di grande prestigio e capo della ricerca del Fondo monetario internazionale, aveva detto proprio al «Corriere» di attendersi un sostanziale slittamento del dollaro, accompagnato da una ripresa della domanda degli altri Paesi industrializzati, anche perché un deficit commerciale pari al 5,7% del reddito nazionale, come quello che l’America sta ormai accumulando da mesi, non è più sostenibile.

Lipski è meno allarmato: «Ho grande stima di Ken, conosco le sue analisi estremamente brillanti, ma su questo punto non sono d’accordo con lui. Credo che ci siano almeno due forze in campo che ci aiuteranno a ridurre il deficit corrente col resto del mondo, effettivamente enorme: da un lato, la domanda che sta ormai crescendo nei Paesi coi quali abbiamo i maggiori scambi commerciali più di quanto non stia salendo da noi: nel 2003, con la domanda Usa che esplodeva, qui alla Jp Morgan eravamo meravigliati che non accadesse la stessa cosa al deficit corrente del Paese. Ora la situazione sta cambiando: la Cina sta creando le premesse per un “soft landindg” e anche questo ci aiuterà a chiudere il gap.

Il secondo fattore riguarda il risparmio degli americani. Negli ultimi anni è calato in modo preoccupante: un fenomeno che, sommandosi al crescente deficit pubblico, ha gonfiato il disavanzo con l’estero. La bassa inflazione e i bassi tassi d’interesse hanno favorito questa riduzione del risparmio, ma al tempo stesso la ricchezza degli americani è aumentata più rapidamente che in passato grazie alla rivalutazione delle proprietà immobiliari e degli altri “asset” finanziari. Ora alcuni dei fattori che hanno favorito la rarefazione del risparmio stanno venendo meno: le famiglie torneranno quindi ad accumulare capitali e se anche il governo di Washington farà la sua parte, riducendo in modo sostanziale il deficit pubblico, si creeranno le condizioni per riassorbire buona parte del disavanzo con l’estero».

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