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(WSI) – Alcuni anni fa i commentatori avevano scoperto il cinismo dei mercati azionari. Capitava cioè che una società che annunciava tagli occupazionali, magari per decine di migliaia di posti di lavoro, si vedeva premiata da spettacolari rialzi del titolo. Meno addetti, meno costi, un più elevato utile per azione, un immediato adeguamento del prezzo, con tanti saluti a chi ci rimetteva il lavoro. Ma di questi tempi, altro che cinismo. Ogni evento che sembra destinato ad attenuare le tensioni internazionali è accolto da un indebolimento delle Borse.
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È capitato di recente sull’apertura a sorpresa del dialogo tra Stati Uniti e Iran, è successo di nuovo ieri sulla notizia che il plenipotenziario di Osama bin Laden in Iraq, al Zarqawi, ha concluso la sua carriera di terrorista. È vero che i listini asiatici venivano da una notte di tregenda ed è anche vero che la Bce ha rialzato il costo del denaro, ma questo era un evento largamente scontato. La verità è un’altra: non è che i mercati siano diventati guerrafondai, o almeno non più di sempre. È che intorno al petrolio si è costituita una colossale bolla speculativa e perciò ogni evento che può attenuare la crisi mediorientale è visto con timore. Un tempo il prezzo del barile alto significava crescita economica bassa, e quindi le Borse traevano vantaggio da ogni calo del greggio.
Ma oggi quella relazione non vale più, intanto perché da qualche anno un prezzo crescente del petrolio convive con una crescita mondiale sostenuta. In secondo luogo perché il peso del settore oil nei listini azionari è aumentato in misura considerevole. Anche in Piazza Affari un prezzo elevato dell’energia fa bene all’indice, considerato il peso di colossi come l’Eni e l’Enel, cui si aggiungono gruppi come Erg e Saras, più la filiera dell’oil equipment da Saipem in giù. La flessione del prezzo del greggio può tuttavia innescare trame operative interessanti per gli investitori. Se non sarà episodica, la caduta dei prezzi (e dei margini) è destinata a favorire le aggregazioni tra le compagnie del settore, perché il fattore dimensionale assume un’importanza cruciale.
Nei giorni scorsi Alessandro Garrone, amministratore delegato della Erg, ha dichiarato che il gruppo potrebbe trovarsi un compagna di viaggio nella gara per la Tamoil: poiché la società genovese capitalizza meno di 3 miliardi e la compagnia libica è valutata intorno a 2 miliardi, l’ipotesi non fa una grinza. Ma tre settimane fa, sempre Garrone aveva ipotizzato un’integrazione con la Saras dei Moratti. Forse ipotizzare un matrimonio è un po’ eccessivo. Ma un’alleanza per un comune obiettivo appare verosimile.
Alitalia
Chi invece dal calo del petrolio dovrebbe trarne vantaggio è la nostra sgangherata compagnia di bandiera, se non altro perché il titolo da anni, a ogni rialzo del barile, perdeva terreno a motivo dei maggiori costi d’esercizio. Ieri, invece, il titolo ha fatto l’ennesimo scivolone, lasciando sul terreno il 2,62 per cento: con la pioggia o col bel tempo, per Alitalia il risultato è sempre lo stesso. C’è però da segnalare la dichiarazione, arrivata sul mercato poco prima delle 14, del ministro dello Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani, che si è mostrato molto freddo sul tema delle alleanze: «Non sono la bacchetta magica che risolve i problemi di Alitalia», ha detto il ministro, aggiungendo di non averne fatto cenno con il suo omologo francese che ha incontrato a Lussemburgo.
Secondo una tradizione consolidata, e che ha avuto come massimo esponente Pietro Lunardi, prosegue l’abitudine dei nostri ministri di sparare su Alitalia a mercati aperti. Giorni fa il responsabile dei Trasporti, Alessandro Bianchi, aveva proposto di cacciare i vertici della compagnia. Non sarà facile affrontare seriamente i problemi di un’azienda che gli stessi ministri competenti trattano come un punching ball.
CapIntesa
Il matrimonio bancario dell’anno sembra sfumare all’orizzonte. Ieri il presidente di Banca Intesa, Giovanni Bazoli, ha detto che «Capitalia resta un’opzione, ma è una delle varie». E l’amministratore delegato della banca romana, Matteo Arpe, non è stato da meno: «Ci sono diverse ipotesi di aggregazioni, e le aggregazioni prima si fanno e poi si dicono». Fine dell’innamoramento o gioco delle parti? Staremo a vedere. Per intanto si può osservare che la caduta dei mercati (e dell’attenzione degli osservatori) sta lentamente rimuovendo quello che era apparso l’ostacolo più complesso sulla strada dell’operazione, ovvero il problema dei prezzi relativi, a causa della corsa vertiginosa del titolo Capitalia, tale da rendere impraticabile l’affare, almeno nella versione cash. Da inizio aprile, quando la fibrillazione era ai massimi, la capitalizzazione della banca romana è scesa di 3 miliardi. Anche quella di Intesa è scesa di 3 miliardi. Ma Capitalia è passata da 18 a 15 miliardi, Intesa da 29 a 26. Un movimento nella direzione giusta, per chi tifa per l’operazione.
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