(WSI) – L’analisi più comune sulla crisi che stiamo attraversando è questa. Oggi come nel ’29 il capitalismo, soprattutto quello di stampo anglosassone, rivela di essere profondamente instabile. I mercati, non solo quelli finanziari ma anche in altri settori, sono troppo poco regolati e per questo provocano gravi danni. Come Franklin Delano Roosevelt salvò l’America dalla crisi del ’29 con un forte intervento pubblico nell’economia, e con stringenti regolamentazioni, così oggi bisogna ristabilire la supremazia della politica sui mercati, regolandoli fortemente sia a livello nazionale che internazionale. La crisi di oggi, continua questa analisi, porterà a una benvenuta svolta interventista e dirigista. C’è bisogno di qualcosa di simile a un nuovo New Deal.
Questa lettura della crisi del 2009 si basa su di una visione superficiale di quella del ’29 e, quindi, porta a trarre delle lezioni sbagliate, sul presente e sul futuro. Partiamo da un fatto: la politica, non il mercato, fu la causa principale dello shock 80 anni fa. Clamorosi errori di politica economica trasformarono un aggiustamento dei mercati finanziari in una tragedia per l’economia reale. Lo stesso crollo di Borsa fu in parte accentuato da errori della politica monetaria. In secondo luogo, un’analisi attenta del presidente del New Deal, eletto nel novembre 1932, dimostra che non fu Roosevelt a far uscire l’America dalla depressione; anzi, alcune sue scelte politiche non fecero che prolungarla. Quello che stupisce della depressione americana è il fatto che durò così a lungo – ben un decennio, e chissà quanto ancora se non ci fossero state la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione post bellica – e fu più grave che in Europa.
Gli sbagli di Herbert Hoover, predecessore di Roosevelt, e quelli della Federal Reserve causarono la crisi. Hoover era un ingegnere, poco capiva di economia e credeva che un sistema economico andasse diretto come una macchina, dando ordini e direttive alle sue componenti. E, infatti, insediatosi all’alba del funesto ’29, ai primi segnali di recessione e deflazione convocò i maggiori industriali americani e impose loro di non abbassare i salari nominali per mantenerne il potere d’acquisto e sostenere i consumi.
N on potendo mantenere salari nominali costanti mentre i prezzi dei beni cadevano, gli imprenditori accelerarono le chiusure e fecero schizzare in su la disoccupazione.
Poi, Hoover si scagliò contro la finanza, spaventando gli investitori e accelerando il crollo del Dow Jones. Inoltre, accettò il ritorno al protezionismo approvando la tariffa Smoot Hawley, nonostante una famosa petizione contraria firmata da 1.028 economisti. Ne derivò una guerra commerciale che polverizzò quello che era rimasto della globalizzazione prebellica (la Belle époque) e fece precipitare il mondo nella crisi piu grave del capitalismo. Infine, preoccupato per il deficit in aumento, Hoover aumentò, e di molto, le imposte, dando un’altra batosta alla domanda aggregata.
Hoover consegnò a Roosevelt all’inizio del 1933 un’economia con un tasso di disoccupazione di circa il 20 per cento. Due anni dopo era al 23 per cento. Una ripresa nel ’37 fu, poi, seguita da una nuova recessione l’anno successivo. In media, il totale delle ore lavorate in Usa fu inferiore del 23% durante il New Deal (’33-’39) rispetto agli anni prima del ’29, nonostante fosse salita di molto la spesa pubblica. I consumi degli americani rimasero al 25% sotto trend durante quel periodo ritenuto leggendario. Non sembra un grande successo.
Che cosa fece Roosevelt? Una parte delle sue scelte politiche furono ottime: i sussidi alla disoccupazione limitarono i danni sociali della depressione, il sistema pensionistico pubblico tranquillizzò i consumatori sul loro futuro, l’assicurazione sui depositi bancari e la creazione di un regolatore dei mercati stessi (la Sec) contribuirono a stabilizzare i mercati finanziari. Ma il suo estremo dirigismo nella regolamentazione dell’economia fece gravi danni.
I teorici del New Deal erano convinti che il capitalismo andasse gestito e diretto dal centro della politica. In questo senso il National Recovery Act, che fu la prima mossa di Roosevelt nel ’33, fu un disastro. Questa legge voleva fissare (o influenzare) prezzi e salari, impedire la concorrenza e promuovere monopoli centralizzati, anche meglio controllabili politicamente. Introdusse regolamentazioni molto specifiche su cosa si poteva e non si poteva fare nel campo della produzione e della scelta dei prodotti. Potenziali forze vitali dell’economia privata vennero essenzialmente schiacciate da queste asfissianti regole, nel loro insieme contrarie a qualunque basilare principio di economia.
Molti potenziali investitori spaventati dalle prospettive dell’economia di mercato e dal futuro status giuridico delle imprese, messi in discussione dal New Deal con la sua tesi della superiorità della politica, cessarono di investire peggiorando cosi la depressione. La Corte suprema dichiaro il National Recovery Act incostituzionale nel ’35, ma quelle politiche industriali continuarono essenzialmente immutate. Roosevelt minacciò perfino l’indipendenza della Corte suprema nella sua battaglia dirigista. Ma alla fine lo stesso presidente riconobbe come un errore l’eccesso di regolamentazione e, in un discorso del ’38, ammise di aver consegnato l’economia americana a dei monopolisti.
L’altro cardine delle politiche di Roosevelt fu il forte aumento della spesa pubblica, soprattutto per opere pubbliche. A giudicare dai risultati sull’occupazione sopra ricordati, tutto questo sforzo ebbe effetti molto meno straordinari di quanto normalmente si pensi. Anche altre recessioni aggredite con espansioni fiscali nel secondo dopoguerra dimostrano che i benefici della spesa pubblica, in particolare di grandi opere edili, per stimolare la crescita sono alquanto dubbi. Insomma, quello che stupisce nell’America del New Deal non è un veloce recupero dalla crisi del ’29, ma un decennio di difficoltà più gravi che in altri Paesi industrializzati nella stessa epoca. I tentennamenti e le indecisioni di Roosevelt sull’abbandono del gold standard non fecero che aggravare il problema.
La lezione da trarre dalla crisi del ’29 è, allora, molto diversa dalla riscoperta della regolamentazione, del dirigismo e dello statalismo.
La crisi di oggi è stata sì determinata dalle distorsioni dei mercati finanziari. Ma la gestione dell’economia ci ha messo del suo, a partire da tassi troppo bassi fissati dalla Fed nei primi anni del Duemila. Fra l’altro, molti dei leader europei che oggi si scagliano contro il capitalismo anglosassone sono gli stessi che criticavano la più prudente e saggia Banca centrale europea.
E osannavano, invece, Greenspan per le sue politiche espansive, che poi, come si è visto, contribuirono alla crisi finanziaria. E se oggi, per fortuna, abbiamo in larga parte evitato gli errori di Hoover, adesso dobbiamo evitare anche quelli di Roosevelt. Protezione sociale sì, ma non reintroduzione del dirigismo e del capitalismo di Stato. Non ci deve essere una restaurazione. La lezione da trarre da questa crisi è quella che ha tratteggiato Guido Tabellini sul Sole 24 Ore del 7 maggio. Ovvero, il capitalismo dopo questo shock non cambierà. Riscriveremo alcune regole per mercati finanziari. Cercheremo di migliorare la supervisione e gli incentivi per i manager della finanza, oltre a cambiarne parecchi. Ma il capitalismo anglosassone, fondato sul mercato, continuerà a essere quello che produce piu crescita. Teniamocelo.
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