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Nell’affare Profumo vincono Berlusconi e Geronzi. Ma ne siamo proprio sicuri?

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(WSI) – Geronzi: non sono io il capo della Spectre. Il vero problema è il potere delle Fondazioni”. Con Alessandro un buon rapporto. La Lega? Aprono bocca a vanvera”. Con la politica non ho alcuna relazione pericolosa. Io sono un menestrello, dò consigli e suggerimenti. La fusione tra Mediobanca e le Generali? Non ci penso e non ci ho mai pensato”.

di Massimo Giannini

Mi dispiace deluderla, ma non sono io il capo della Spectre…”, giura Geronzi. Dal suo ufficio di Piazza Venezia a un passo dal Foro Romano, il Cesare del capitalismo si sfila dalla “congiura” contro Profumo.

“Non ho niente contro Alessandro, e mi sono sempre adoperato per la stabilità del sistema finanziario”. A sentire la ricostruzione del presidente delle Generali, nella battaglia su Unicredit non c’è stata nessuna vittoria dell’asse Berlusconi-Geronzi, nessun piano orchestrato dalla solita politica e dalla grande finanza per sconfiggere Profumo, prima attraverso il “cavallo di Troia” dei libici, poi con l’affondo coordinato tra le Fondazioni delle casse del Nord, il presidente di Unicredit Dieter Rampl e i soci tedeschi e italiani a lui vicini. “Vede, quando le cose sono semplici, a me non piace che siano raccontate come un romanzo. Meno che mai un romanzo di fantascienza”. Per Geronzi è “fantascienza” l’incontro tra lui e il premier durante la visita romana di Gheddafi, volto a trasformare l’ingresso dei libici in Unicredit in un’arma per abbattere lo strapotere dell’amministratore delegato.

Questo è il primo punto che il numero uno del Leone di Trieste ci tiene a chiarire: il “ribaltone” a Piazza Cordusio non è stata una sua vendetta contro il “ceo”: “Io non ho nulla contro Profumo, e non ho mai avuto nulla contro di lui. Mi citi un episodio, uno solo, nel quale ci saremmo scontrati… “.

L’elenco è lungo: dalla fuoriuscita dal capitale Rcs ai Tremonti Bond, dalla governance di Mediobanca al passaggio dello stesso Geronzi da Piazzetta Cuccia alle Generali. Ma anche in questo caso, il banchiere di Marino nega tutto: “Non è affatto vero che io e Alessandro abbiamo litigato su questi punti. E soprattutto è una leggenda che Profumo fosse contrario al mio passaggio alle Generali: in realtà lui, giustamente, si preoccupava solo del fatto che ci fosse una continuità aziendale in Mediobanca. Vuole sapere la verità su me e Profumo? La verità è che io, insieme a lui, ho fatto la più bella operazione del sistema bancario italiano di questi anni, e cioè la fusione tra Unicredit e Capitalia. Un’operazione straordinaria non solo per me e per lui, ma per il Paese.

Allora creammo insieme la prima banca italiana per capitalizzazione, e lo facemmo con tanta concordia tra noi che chiudemmo l’operazione in quattordici giorni. Poi, certo, nella gestione quotidiana ci possono essere momenti in cui non si condivide qualcosa. Ma questo rientra nella fisiologia dei rapporti di lavoro, e non ha nulla a che vedere con il rancore, e meno che mai con la vendetta”.

Il secondo punto che Geronzi ci tiene a precisare riguarda i suoi rapporti con la politica, e il ruolo che Palazzo Chigi ha giocato nella partita Unicredit. “Io non so dire che cosa abbia fatto Palazzo Chigi in questa vicenda. So però che io non ho avuto alcun contatto con il governo, per discutere dell’affare Unicredit. Lei potrà anche non crederci, perché spesso vengo rappresentato come il “braccio armato” dalla politica nel mondo della finanza, ma la verità è che io con la politica non ho alcuna “relazione pericolosa”. Io sono un menestrello, rispetto a chi fa politica per professione… Do consigli e suggerimenti, e solo quando mi vengono richiesti”.

Non è questo il caso dell’operazione Unicredit, garantisce il presidente delle Generali: “Nessuno mi ha chiesto nulla, e io non ho suggerito nulla”. Eppure i conti non tornano, se uno degli uomini considerati vicini allo stesso Geronzi, e cioè Luigi Bisignani, accredita l’ipotesi che la cacciata di Profumo sia solo la prima tappa di un percorso, rinsaldato sull’asse Berlusconi-Letta, che deve poi portare alla “grande fusione” Mediobanca-Generali. Su questo punto il banchiere di Marino taglia corto: “Forse c’è chi vuole accreditare giochi di potere e comportamenti non rituali nella gestione di istituzioni finanziarie importanti come le nostre. Ma io non faccio giochi, questo modo di operare non mi appartiene e non mi è mai appartenuto. La mia storia parla per me, dai tempi in cui lavoravo alla Banca d’Italia”.

Prendendo per buona la versione del banchiere di Marino, resta allora da capire chi ha davvero voluto far fuori Profumo. Se l’ipotesi Berlusconi-Geronzi è “un romanzo di fantascienza”, il “colpevole” non può essere il solito maggiordomo, come nei romanzi gialli di serie B. Sono stati i libici? “No, su questo concordo perfettamente con lei: la presunta scalata dei libici è stata solo un pretesto, un alibi, oltre tutto pessimo, perché confermo che nel caso di Capitalia i libici sono stati i migliori azionisti che io abbia mai avuto”. Allora sono stati i tedeschi, tanto che ora Bossi, dopo aver agitato lo spauracchio di Gheddafi, lancia l’allarme sulla “calata degli unni” dalla Germania? “Non diciamo sciocchezze. Qui c’è chi apre bocca e da fuoco ai denti. Far serpeggiare adesso il rischio della scalata dei tedeschi con il solito slogan del “no pasaran”, dopo aver gridato al pericolo dei libici, mi pare davvero un modo stravagante e propagandistico di “leggere” gli eventi. Non facciamoci prendere dalle dietrologie e dalle strumentalizzazioni… “.

Scartato Palazzo Chigi, escluso lo stesso Geronzi, sgomberato il campo dall’equivoco sui libici e sui tedeschi, chi rimane tra i possibili “congiurati”? Restano i “grandi azionisti” del Nord, cioè le Casse di Torino e di Verona dietro alle quali la Lega si è mossa e si muove eccome, a dispetto delle smentite di queste ultime ore. E qui il presidente delle Generali si fa più pensoso: “Mettiamola così. Io penso che tutto nasca dal grande processo di trasformazione delle casse di risparmio, e poi di creazione delle Fondazioni, avviato all’inizio degli anni ’90. Quella riforma ha consentito indubbiamente il disboscamento di quella che allora Giuliano Amato definì giustamente la “foresta pietrificata” del credito. Ma col tempo quel processo di modernizzazione ha cambiato natura.

E oggi le Fondazioni stanno riproducendo antiche formule del passato, e stanno ripercorrendo una strada che mi ricorda quella delle vecchie camere di commercio. Stiamo tornando a quel livello, e questo mi preoccupa molto, da cittadino prima di tutto. Perché vede, in nome di questo malinteso senso del “radicamento con il territorio”, le Fondazioni rischiano di disgregare il sistema, mentre c’è bisogno di cementarlo… “. Eccoli, allora, i colpevoli della congiura contro Profumo: Palenzona e Biasi, le Fondazioni piemontesi e venete, debitamente ispirate dalle camice verdi.

Quando si parla della “politica che vuole allungare le mani sulle banche”, insomma, secondo Geronzi non si fa riferimento ad un’intenzione generica del Palazzo. Ma è di questo che si sta parlando: della Lega, che usa le Fondazioni per costruire le sue roccaforti locali. “Unicredit è il primo esempio. Ce ne potrebbero essere altri. Non Banca Intesa, per fortuna, dove Bazoli ha gestito al meglio la fase critica e Guzzetti, che è uomo di grande qualità, è riuscito a coniugare al meglio la vocazione globale e la collocazione territoriale”.

Almeno un “colpevole”, alla fine, è uscito fuori. Ma può essere solo il Carroccio, il pericolo per il sistema bancario? E può essere solo il Carroccio ad aver mobilitato tutti i consiglieri di Unicredit contro “Mister Arrogance”? Il banchiere di Marino ci crede: “Ma una cosa è certa. Non è così che si gestisce un problema all’interno di una delle più grandi banche d’Europa. Vede, Profumo era un uomo di carattere, e un temperamento molto forte. Ha gestito e superato momenti difficilissimi, perché nel 2008 e 2009 la crisi è stata durissima. Si può immaginare che qualche suo tratto non “arrogante”, perché l’arroganza non c’entra, ma magari semplicemente “autoritario”, può non essere piaciuto agli azionisti. Ma se anche fosse stato questo il problema, il modo in cui è stato affrontato e “risolto” è stato pessimo… “.

Dice di più, Geronzi: “Unicredit è una grande istituzione sovranazionale. Il modo in cui è stato affrontato il caso Profumo non è degno di una “banchetta” di provincia. Io non sono azionista di Unicredit. Ma da “banchiere di sistema” che si è sempre battuto per la stabilità, dico che in questi giorni è stata data ai mercati internazionali una pessima dimostrazione di ciò che è il sistema finanziario italiano. Il consiglio di amministrazione dell’altro ieri, con gente che entra e che esce e foglietti che volano da un tavolo all’altro, è uno spettacolo avvilente. In Francia e in Germania una cosa del genere non sarebbe mai accaduta. Mi chiedo perché debba accadere da noi. E da questo punto di vista sono convinto che, con questa vicenda, sia stata fatto un grave danno all’Italia. In un grande Paese, l’establishment non si comporta così…”.

Su questo, davvero, non si può che essere d’accordo con Geronzi. Resta da capire a che punto è il progetto di fusione Mediobanca-Generali, che Bisignani descrive come il vero, grande sogno del banchiere di Marino: “Se scrive di nuovo che questo è il mio progetto mi offendo. Non ci penso, non ci ho mai pensato… “. L’obiezione finale è fin troppo facile: aveva smentito seccamente anche l’ipotesi di un suo trasloco da Piazzetta Cuccia al Leone Alato, che invece nella primavera scorsa è andato puntualmente in porto.

“Quella è tutt’altra storia – conclude Geronzi – poiché decisi di accettare il trasferimento solo l’ultima settimana, e nel comitato nomine di Mediobanca decidemmo tutti assieme, all’unanimità. Io ho a cuore la stabilità. Mi si può dire che le Generali possono essere gestite meglio, in modo più dinamico o più redditizio. Accetto tutto. Ma non mi si può e non mi si potrà mai dire che un’istituzione che presiedo possa concorrere a sfasciare il sistema. In tutta la mia vita ho fatto esattamente l’opposto. E continuerò a farlo”. Vedremo chi ha ragione. Appuntamento alla prossima primavera.

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Un coro di critiche sulla stampa al licenziamento di Alessandro Profumo da ad di Unicredit. ”Un errore grave” titola il commento di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera. L’economista scrive che il vero scontro che ha opposto Profumo ai grandi azionisti e’ stata la decisione di trasformare Unicredit da ”una somma di feudi locali in una struttura unica”.

Per Giavazzi anche Profumo ha commesso errori come l’acquisto di Capitalia e la gestione troppo frettolosa dell’ingresso dei libici ”ma oggi paga per una scelta giusta, non aver accettato di venire a patti con le consorterie che comandano in Italia”.

”Chi ha paura di una banca autonoma?” e’ il titolo dell’editoriale del Sole 24Ore a firma di Paolo Bricco che riconoscendo il diritto agli azionisti di cambiare il proprio management, scrive che nella vicenda Unicredit ”c’e’ quacosa che stride: lo strappo violento che gli azionisti italiani e tedeschi hanno scientificamente prodotto nelle ultime ore sono un cattivo esempio di governance”. ”Non e’ giustificabile che una grande banca divenga all’improvviso un corpo privo di testa strategica e operativa”.

E Repubblica in una sua analisi scrive anche che i veri vincitori di questa operazione sono loro, Berlusconi e Geronzi.

Intanto arriva la dichiarazione shock dell’ambasciatore libico a Roma, Hafed Gaddur, secondo cui il presidente di Unicredit Rampl avrebbe saputo tutto.

“Per noi Profumo ha fatto un buon lavoro. L’abbiamo appoggiato. Ho letto cose inesatte in questi giorni. Non è vero che il presidente (Rampl ndr) era all’oscuro. Era stato informato da Tripoli. Credo dunque che, i motivi di questa resa dei conti siano altri. Non tocca a me stigmatizzarli”, così ha detto intervistato dalla Stampa.

“La Lega – aggiunge – fa parte della maggioranza di governo e noi abbiamo un buon rapporto con il governo. Semmai, quello che mi dispiace, è che alcuni esponenti politici hanno strumentalizzato il rapporto tra Italia e Libia. E mi dispiace soprattutto che alcuni di questi esponenti sono del partito Democratico”.

Quanto agli acquisti di azioni effettuate dai libici, Gaddur osserva: “quando Cariverona si è tirata indietro dalla ricapitalizzazione per salvare il titolo siamo stati obbligati a intervenire. La Libia è socio gradito”.

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di MASSIMO GIANNINI

La vittoria dell’asse Berlusconi-Geronzi

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La battaglia contro Alessandro Profumo e la conquista di Unicredit è l’ultima, grande operazione del capitalismo di rito berlusconiano-geronziano.

L’indecoroso “dimissionamento” dell’amministratore delegato e il clamoroso ribaltone al vertice della prima banca italiana non è solo la sconfitta di una certa idea del libero mercato, dove ognuno fa il suo mestiere: la politica detta le regole del sistema, i manager gestiscono le società creando valore per gli azionisti, e i soci incassano gli utili e i dividendi.

In Italia non funziona così: nelle grandi casseforti dell’economia e della finanza, spesso blindate tra partecipazioni incestuose e relazioni pericolose, politici arrembanti e azionisti deferenti si alleano per far fuori i manager disobbedienti. Letta in questa chiave, la battaglia di Piazza Cordusio e la cacciata di Profumo lasciano sul campo due sicuri vincitori: Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi.

Il presidente del Consiglio ottiene una vittoria politica, in vista dell’appuntamento cruciale che, nella sua agenda, è fissato per il marzo 2011: le elezioni anticipate. Il presidente delle Generali strappa una vittoria finanziaria, in vista della mossa che, nella sua testa, chiuderà il “Risiko” dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca.

Tra un appuntamento a Palazzo Chigi (dove dispone di un suo ufficio) e una colazione da Mario a via dè Fiori (dove pranza con gli ospiti di riguardo) lo spiega direttamente Luigi Bisignani, fiduciario di Gianni Letta e uomo di raccordo della filiera berlusconian-geronziana: “Voi continuate a mettermi in mezzo, ma con questi affari io non c’entro. Detto questo, mi pare che stiamo solo al primo passo: il prossimo sarà la grande fusione… “. La “grande fusione”, appunto.

Cioè il “merger” Mediobanca-Generali, di cui il Cavaliere di Arcore dichiara di non occuparsi e il Leone di Trieste giura di non sapere nulla. In realtà le cose stanno diversamente. E l’affondamento di Profumo è solo una tappa, in questo percorso di guerra. Unicredit è il primo azionista di Mediobanca, con l’8,6% del capitale. Qualunque operazione su Piazzetta Cuccia non si può fare, se non controlli il capo-azienda di Piazza Cordusio. Anche per questo è partito l’attacco a “Mister Arrogance”. Ecco in che modo.

La partita politica. Come riassume un ministro che si è occupato in questi mesi della vicenda, “il destino di Profumo era segnato da un anno e mezzo, e lui era il primo a saperlo”. In parte è così. L’amministratore delegato sapeva di avere ormai troppi nemici, dentro e fuori dalla banca. C’è chi sostiene addirittura che la sua fine sia stata decretata l’8 luglio, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, dove Berlusconi, seduto a fianco di Cesare Geronzi, avrebbe imposto al governatore della Banca d’Italia Draghi uno “scambio”: io ti sostengo per la corsa alla Bce, tu non ti opponi al ribaltone in Unicredit. Ipotesi ardita. Forse fantasiosa. Sta di fatto che il ministro del Tesoro Tremonti, non invitato a quella cena, non ha gradito. E da quel momento, dopo aver bastonato per due anni le banche e i banchieri, ha curiosamente cominciato a difendere Profumo.

E sta di fatto che lo stesso Profumo, prima dell’estate, si è mosso con i libici, per cercare una sponda che gli desse manforte contro gli altri azionisti all’attacco, dalle Fondazioni delle Casse del Nord ai tedeschi dell’Allianz guidati dal presidente di Unicredit Dieter Rampl. Per questo all’inizio di agosto, alla vigilia della partenza per le ferie, lo stesso Profumo è andato in missione ad Arcore, a spiegare a Berlusconi il senso dell’ingresso dei libici nel capitale Unicredit. Dal suo punto di vista, i fondi sovrani del Colonnello Gheddafi dovevano essere il suo “cavaliere bianco”. E invece si sono rivelati il “cavallo di Troia”, che lo stesso Berlusconi, Bossi e Geronzi – attraverso Palenzona, Biasi e Rampl – hanno usato per sfondare le sue difese.

Il premier, in quell’occasione, ha dato ampie garanzie a Profumo: “Procedi pure con i libici”. Ma è stata una pillola avvelenata. Nel frattempo il suo affarista di fiducia per l’area Sud del Mediterraneo, Tarak Ben Ammar, con la benedizione di Geronzi di cui è a sua volta amico personale, ha trattato direttamente con Gheddafi i termini del suo impegno in Unicredit. Un impegno che doveva servire da alibi, per lanciare l’offensiva contro Profumo, ancora una volta all’insegna (pretestuosa) della difesa dell'”italianità” dei campioni nazionali. Il segnale che l’operazione libica stava prendendo una piega diversa da quella immaginata dall’amministratore delegato è arrivato un mese dopo. Il 25 agosto, al meeting di Cl a Rimini, proprio Geronzi si è lasciato andare a una frase sibillina: “Fin dai tempi di Capitalia, i libici sono stati i migliori soci che io abbia mai avuto”. È parsa una dichiarazione distensiva verso l’aumento progressivo della partecipazione dei fondi di Tripoli in Unicredit. E invece è stata solo un’altra pillola avvelenata contro Profumo.

Lo si è capito pochi giorni più tardi, quando il 30 agosto il Colonnello è sbarcato a Roma, accolto con tutti gli onori dal presidente del Consiglio e dalla plaudente “business community” italiana. Tra il faccia a faccia a Palazzo Chigi e la cena alla caserma Salvo D’Acquisto, Gheddafi e Berlusconi hanno parlato dell’affare Unicredit. Subito dopo, Geronzi si è recato a Palazzo Grazioli, è ha messo a punto insieme al Cavaliere il piano d’attacco a Profumo. Un piano in tre mosse. Prima mossa: allarme mediatico per la “scalata libica”, lanciato ai primi di settembre dalla Lega, che ha costretto la Consob e la Banca d’Italia a chiedere chiarimenti a Profumo. Seconda mossa: attacco mediatico dalla Germania, con la “Suddeutsche Zeitung irritata per “l’arroganza” del ceo. Terza mossa: convocazione di un consiglio straordinario da parte dei “grandi azionisti”, per ridiscutere l’operato del management. È esattamente quello che è accaduto in queste tre settimane, e che ha portato l’amministratore delegato alla resa finale.

La vittoria politica di Berlusconi si può riassumere così. In uno scenario che precipita palesemente verso le elezioni anticipate, il premier sistema la partita strategica di Unicredit, si libera di un manager troppo autonomo dal Palazzo, e in un colpo solo rinsalda il suo patto di ferro con Umberto Bossi, sigla una tregua con il governatore di Bankitalia Draghi, e ridimensiona le velleità politiche del suo ministro-antagonista Tremonti. Sembra fantascienza. Ma forse non lo è affatto. Lo prova, paradossalmente, la sobrietà con la quale lo stato maggiore del Carroccio festeggia le dimissioni di Profumo. Lo prova, allo stesso modo, la battaglia non proprio campale che Via Nazionale ha condotto per difendere la governance della prima banca italiana. Lo prova, infine, l’ultima battuta di Tarak, all’uscita della riunione del patto Mediobanca di ieri: “I libici irritati per quello che è successo a Unicredit? Non credo affatto…”. Per molte ragioni, la sconfitta di “Mister Arrogance” ha accontentato diverse casematte del potere, politico ed economico.

La partita finanziaria. Se il premier su Unicredit ha giocato dunque la sua partita politica, Geronzi su Profumo ha giocato la sua partita finanziaria. E lo ha fatto con l’obiettivo raccontato da Bisignani. Espugnare la fortezza di Piazza Cordusio, per poi coronare il progetto che si porta dietro dalla scorsa primavera, da quando cioè ha traslocato dal vertice di Mediobanca alla presidenza delle Generali: fondere Piazzetta Cuccia con il Leone di Trieste. E così ridefinire una volta per tutte, a suo vantaggio, gli equilibri del capitalismo italiano. Da maggio scorso, a dispetto di una governance che formalmente assegna allo stesso Geronzi poche deleghe in Generali, lasciando a Mediobanca il controllo delle partecipazioni strategiche come Rcs, Telecom e le banche, il nuovo Cesare del capitalismo italiano ha ingaggiato una guerra senza quartiere con i due “alani” rimasti a Piazzetta Cuccia. Lo ripete lo stesso Bisignani, senza farne mistero: “Con Renato Pagliaro e Alberto Naghel gli scontri sono continui…”.

Geronzi si sta smarcando sempre di più, dall’orbita Mediobanca. E lo fa non per lasciare all’Istituto che fu di Enrico Cuccia la sua piena autonomia, ma per raggiungere il risultato contrario: cioè tornare a comandare anche lì. Con l’operazione di “reverse merger” di cui si parla da tempo, e che “Repubblica” ha anticipato nella primavera scorsa, e che ora lo stesso Bisignani conferma. Un’operazione che, secondo fonti di mercato, coinvolgerebbe persino la Mediolanum, di cui il premier vuole disfarsi, perché non sa cosa farne, e che lo stesso Geronzi sarebbe pronto ad accollarsi, per rendergli l’ennesimo favore. Sembra fantascienza, anche questa. Domani fioccheranno smentite. Ma anche fino alla scorsa primavera il banchiere di Marino aveva smentito il suo progetto di trasferirsi in Generali. Sappiamo poi com’è andata a finire.

Al fondo, resta l’immagine di un capitalismo ancora una volta provinciale, asfittico, autoreferenziale, etero-diretto dalla politica. In questa ultima grande partita del potere italiano non ha perso Profumo, uno dei pochi grandi banchieri di caratura internazionale in questo sciagurato paese. Ha perso l’intera, sedicente “élite” della solita, piccola, Italietta.

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di FRANCESCO GIAVAZZI

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Un errore, grave

Non è il disaccordo sulla presenza dei libici che ha indotto le fondazioni italiane e gli azionisti tedeschi a sfiduciare Alessandro Profumo, peraltro senza scegliere subito un sostituto, come dovrebbe avvenire in una grande banca internazionale. Sarebbe infatti sciocco opporsi a un socio di minoranza che non esita a mettere mano al portafogli quando la banca ha bisogno di capitale fresco. La Libia è solo un pretesto.

Il vero scontro che oppone Profumo ai grandi azionisti della banca è la sua decisione di trasformare Unicredit da una somma di feudi locali (Monaco di Baviera, Verona, Torino, Modena, Treviso…) in una struttura unica, come lo sono le grandi banche internazionali, ad esempio Hsbc (Hong Kong and Shanghai Banking Corporation), la più estesa e la migliore banca al mondo. Una banca unica è più efficiente, ha costi inferiori ed è in grado di offrire ai propri clienti (aziende e famiglie) credito e servizi a condizioni più favorevoli. È evidente che se fossero i clienti a decidere sceglierebbero una banca unica; ma non sono loro, e gli interessi dei grandi azionisti di Unicredit non coincidono con quelli dei suoi clienti.

Per creare una banca unica è necessario smantellare tanti piccoli feudi, ciascuno con i suoi interessi locali, con le sue parrocchie e le sue poltrone da difendere. «Quando ci sono delle decisioni che incidono sul mio territorio ho diritto di dire la mia» ha proclamato ieri Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona. Non vi è dubbio, anche se il suo diritto si limita a poter esprimere un’opinione perché il sindaco di Verona non è un azionista di Unicredit. Tosi omette di spiegare perché teme la banca unica: forse perché essa ridurrebbe il suo «peso politico» in Unicredit? Oppure pensa che danneggerebbe le aziende della sua città? Ma se così fosse, come mai ieri Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, è scesa in campo in difesa del progetto di Profumo? I politici della Lega non sono diversi dai vecchi democristiani: loro controllavano il territorio (e i voti) attraverso le Casse di risparmio e le municipalizzate, la Lega mi pare sulla stessa strada.

I piccoli feudi non esistono solo in Italia: l’altro ieri la Süddeutsche Zeitung lamentava che Monaco di Baviera non è più un grande centro finanziario; sono rimaste BayernLB, una cassa di risparmio in difficoltà, e l’ex Hvb, una banca che Unicredit ha acquistato salvandola dal fallimento. È curioso che dopo i loro clamorosi insuccessi i bavaresi oggi reclamino posizioni di comando in Unicredit (caso mai, voce in capitolo nella gestione della banca potrebbe chiederla a giusto titolo la Polonia, dove Unicredit va a gonfie vele).

Alessandro Profumo ha anche commesso degli sbagli: comprare Capitalia, per esempio, e gestire troppo frettolosamente l’ingresso dei libici. Ma oggi paga per una sua scelta giusta: non aver accettato di venire a patti con le consorterie che comandano in Italia. In quindici anni ha creato l’unica grande multinazionale con una testa italiana. I piccoli feudi sono fermamente intenzionati a distruggerla. Con il capitalismo dei feudi le nostre imprese non andranno lontane. E le modalità ieri usate dagli azionisti possono solo danneggiare la reputazione dell’Italia.

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IL RETROSCENA

Dopo circa quattro ore non senza tensione il cda di UniCredit ha sancito l’addio di Alessandro Profumo, sfiduciandolo. Le deleghe dell’ormai ex AD (che era in carica da 13 anni e mezzo) sono state affidate ad interim al presidente Dieter Rampl.

Nel corso del board, l’operato dell’amministratore delegato uscente sarebbe stato difeso da alcuni consiglieri tra cui il vice presidente Farhat Bengdara, Governatore della banca centrale della Libia (che ha una quota del 4,988% di UniCredit) e da Salvatore Ligresti.

La giornata di ieri è stata lunga e densa di colpi di scena. Profumo avrebbe presentato le sue dimissioni con una lettera presentata ai consiglieri prima dell’inizio del cda straordinario. La banca ha subito smentito, probabilmente per questioni formali. Poi sono emerse voci di un braccio di ferro tra consiglieri. In serata pero’ Profumo avrebbe chiesto la conta dei voti ma alla fine l’istituto di Piazza Cordusio ha deciso di cambiare rotta.

Prima della diffusione del comunicato ufficiale della banca, arrivato alla una e trenta di notte, la conferma e’ arrivata dalla moglie del banchiere Sabina Ratti le cui dichiarazioni sono state raccolte dalle agenzie di stampa lasciando lo studio Eredi Bonelli Pappalardo. “C’e’ stata una richiesta del consiglio di amministrazione e si e’ dimesso. Ha firmato, ha rassegnato le dimissioni”, ha spiegato.

Ecco il comunicato

UniCredit: decisioni del Consiglio di Amministrazione

Il Consiglio di Amministrazione di UniCredit e Alessandro Profumo hanno, a seguito dell’orientamento maturato dal Consiglio, concordato che, dopo 15 anni, è giunto il momento per un cambiamento al vertice del Gruppo. Alessandro Profumo ha quindi rassegnato le dimissioni da Amministratore Delegato, che il CdA ha accettato ringraziandolo per gli ottimi risultati raggiunti in questi anni. In particolare il CdA ha sottolineato che sotto la guida di Alessandro Profumo il Gruppo si è trasformato da banca puramente domestica in uno dei principali Gruppi Europei. La capitalizzazione di mercato è cresciuta in questo periodo da €1,5 miliardi a circa €37 miliardi. Anche durante la crisi finanziaria globale UniCredit ha realizzato utili in ogni trimestre.

Con questi risultati e attraverso i progetti in corso quali One4C sono state preparate le condizioni per un futuro di successo sostenibile per il Gruppo.

Fino alla nomina di un nuovo Amministratore Delegato, il CdA ha trasferito in via temporanea le deleghe esecutive al Presidente Dieter Rampl, che, supportato dai Deputy CEOs guiderà il Gruppo.

Inoltre, il CdA ha dato mandato al Presidente Rampl di identificare e proporre il successore di Alessandro Profumo nelle prossime settimane.

Alessandro Profumo ringrazia il CdA, gli azionisti e tutti i colleghi del Gruppo per averlo sempre supportato in questi anni.

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“Mi mandano via”. Sono le poche parole, riportate dal Corriere della Sera di questa mattina, che Alessandro Profumo, amministrore delegato di Unicredit, ha confidato ad un amico già domenica, riferendosi alle pressioni di alcuni grandi azionisti della banca. Il numero uno di Unicredit “non cede – scrive il Corriere – alla tentazione di rassegnare subito le dimissioni” preferendo “aspettare il consiglio di amministrazione straordinario convocato per questo pomeriggio” ma non nasconde “la forte amarezza per essere trattato così, dopo quindici anni” di dedizione assoluta alla “sua” banca.

“Amarezza, ripete, anche per il “rapporto personale con Rampl”, andatosi deteriorandosi fino alla rottura, prosegue il Corsera. Profumo, riferisce il quotidiano di via Solferino, “si rammarica con i suoi dell”incomprensione’ delle Fondazioni che temono di venir scalzate dai fondi del governo di Muammar Gheddafi, ma riconosce di non essere riuscito a comunicare nei tempi e nei modi giusti le scelte fatte ‘solo nel nome della stabilità della banca’”. E, spiega alle persone a lui più vicine, “non si capisce” perché “la polemica sui libici si sia spostata a quella sulla redditività”. Unicredit, sostiene il suo amministratore delegato, fa meglio dei suoi concorrenti e tenuto conto dei tempi difficili “c’è di che essere soddisfatti”.

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Il banchiere si sfoga con i suoi

“Sono scomodo, fuori dal sistema”

Profumo: alcuni azionisti mi hanno detto che avevano deciso di sostituirmi. Poi va al concerto intitolato ad Ambrosoli. Lega in pressing. Impegno politico. Sempre più forti le pressioni della politica sulle Fondazioni

di GIOVANNI PONS

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(WSI) – “Sono rientrato sabato scorso dall’America dove ero stato per un road show e nel pomeriggio una parte degli azionisti mi hanno detto che avevano deciso di sostituirmi”. Si sfoga così Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit dall’aprile 1997, con alcuni dei suoi più stretti collaboratori all’interno della banca. Il momento, inutile negarlo, è molto difficile e il banchiere ha passato tutta la giornata in trincea, a parlare con i manager a lui fedeli e con gli azionisti che sembrano voler voltar pagina e metter finalmente il naso nella gestione della quinta banca europea.

“La verità è che sono un personaggio scomodo, non faccio parte del sistema, ho rifiutato la Telecom quando al governo c’era il centro-sinistra, ho sbattuto la porta dal cda Rcs”, riferiscono fonti interne alla banca che nel weekend hanno potuto parlare con il banchiere. La giornata è lunga, in serata viene convocato il cda straordinario, ma poco prima delle 20 Profumo si presenta al teatro Dal Verme per assistere al Concerto Civile “Giorgio Ambrosoli” in ricordo di Guido Galli. Il viso è sereno, nonostante tutto, e come al solito cerca di evitare i giornalisti schierati con una scusa non certo banale: “Vado a salutare Annalori”.

Il banchiere genovese ha sempre mostrato un forte senso civile e rispetto per le istituzioni del paese, dunque non sorprende vederlo presente al secondo concerto promosso dalla borghesia milanese in ricordo di un uomo, Ambrosoli, che ha pagato con la vita il suo voler essere fedele fino in fondo ai propri principi etici e al dovere istituzionale. Ma la bufera interna a Unicredit ormai è innescata e oggi bisognerà affilar le unghie per la resa dei conti.

Il presidente Dieter Rampl ha cavalcato fino all’estremo l’affare del rafforzamento dei soci libici nell’azionariato Unicredit, cercando di coagulare un fronte anti-Profumo. Poi ha spinto sull’acceleratore pur senza avvertire tutti gli azionisti: il fronte, dunque, c’è ma non è unanime, probabilmente Luigi Maramotti e Carlo Pesenti non sono così convinti che sia giunta l’ora di cambiare ad.

Tantopiù che sull’affare Libia i punti oscuri sono ancora molti: “Il primo a sapere che i libici volevano prendere una posizione importante nella banca è stato proprio Rampl – rivela un banchiere vicino a Piazza Cordusio – e anche Palenzona sapeva per via governativa o diplomatica”. Basta chiedere all’ambasciatore libico in Italia, Hafed Gaddur. A un certo punto Profumo ha saputo del rastrellamento di azioni dai suoi uffici interni, poiché il fondo sovrano di Muhammar Gheddafi, il Lybian Investment Authority, ha scelto proprio Unicredit come intermediario per l’acquisto delle azioni. Ma a quel punto, ripeterà oggi Profumo a tutti i consiglieri, l’ad era vincolato al segreto dall’art.134 della legge Draghi che prevede risvolti anche penali per chi rivela all’esterno informazioni privilegiate. Certo Rampl non è un “esterno” alla banca ma se il presidente avesse parlato con qualcuno con intenti speculativi a quel punto la responsabilità sarebbe ricaduta anche su Profumo.

Questione delicata, dunque, e dai possibili risvolti legali. Qualcuno prevede che oggi ci sarà baruffa in cda, sicuramente prenderà la parola il rappresentante della Banca Centrale libica Farhat Bengdara, per dimostrare che c’è autonomia di decisioni tra loro e il fondo sovrano Lia e che non c’è alcuna stranezza nel comprare azioni di una banca che valgono 2 euro che in futuro potrebbero raddoppiare. E lo stesso Profumo, stando a chi lo conosce bene, cercherà in extremis di proporre delle regole, un metodo nel cda per sancire una più corretta separazione tra azionisti e management.

La sensazione, comunque, è che si sia ormai logorato il rapporto umano tra il manager e i suoi principali azionisti. Non è un mistero che da due anni a questa parte la banca produce molti meno utili rispetto al passato e che nel 2009 ha distribuito il dividendo in azioni invece che in cash come negli anni passati. A ciò si aggiungano le crescenti pressioni della politica sulle Fondazioni, con la Lega che più volte ha minacciato una sorta di spoils system per far sì che i crediti bancari affluiscano in maniera più fluida verso le piccole e medie imprese.

È l’eterna contraddizione tra una banca che deve essere legata al “territorio” ma anche alle dinamiche internazionali, quale Unicredit è da tempo. L’acquisto della Hypovereinsbank, nell’estate del 2005, aveva proiettato Profumo tra i principali banchieri europei, poi nel 2007 e 2008 è arrivata la crisi finanziaria innescata dai titoli tossici che Unicredit aveva inglobato proprio con i conti della banca tedesca. Le Fondazioni hanno così cominciato a stringere la morsa, chiedendo assicurazioni sulla distribuzione dei dividendi futuri. La Cariverona con il dominus Paolo Biasi fu la prima a fare lo sgambetto nel marzo 2009 quando si ritirò all’ultimo minuto dalla sottoscrizione del bond legato all’aumento di capitale.

E in quell’occasione il soccorso arrivò proprio dai libici e dalla Fondazione Crt, teleguidata dal vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona. Proprio colui che ha difeso Profumo nelle situazioni più delicate ora sembra avergli voltato le spalle, ascoltando sempre più i malumori dei gestori della Crt. Ma anche colui che è molto sensibile al richiamo della politica, soprattutto romana. Se è vero che in questo frangente il principale difensore di Profumo sembra essere Giulio Tremonti, non si può escludere che Palenzona possa compiere un’altra piroetta delle sue nel consiglio di amministrazione di oggi.

Se invece tutto andrà nella direzione voluta da Rampl bisognerà mettere una pietra sopra all’era Profumo in Unicredit. Anche se non si può escludere, vista la giovane età e l’impegno civile del personaggio dimostrato in più occasioni, una discesa nell’agone politico in questo momento di grande confusione morale e istituzionale per l’Italia repubblicana.

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