(WSI) – Gira la ruota della politica italiana, caspita se gira. E pure velocemente. Prendiamo due nomi: Mario Monti e Domenico Siniscalco. Fino a due settimane fa, per buona parte dell’opposizione Monti era l’uomo della svolta, apparentemente possibile neoministro del centrodestra, di fatto primo avamposto del centrosinistra a palazzo Chigi, quindi oppositore del gran rifiuto a Berlusconi e rinnovato (meglio, rinnovabile) portabandiera del buongoverno (prodian-ulivista) a Bruxelles.
Di contro, il vero neoministro Domenico Siniscalco era solo l’oscuro tecnocrate, «il nome non all’altezza del compito» (Rutelli e Fassino), la replica in scala uno a cento di Giulio Tremonti, il ministro fantoccio di un premier dall’interim debordante. Ieri, nelle stesse ore in cui con mossa puramente strumentale il ministro del Welfare Roberto Maroni chiedeva al presidente del Consiglio di confermare Monti alla Commissione europea, i conti di Sinsicalco per il Dpef scatenavano gli osanna dell’opposizione: «Il nuovo ministro dell’Economia ha scelto la strada della verità» (Vincenzo Visco, Ds), «Siniscalco ha finalmente messo fine alla politica degli occhi chiusi» (Roberto Villetti, Sdi), «Alla prima uscita ha contraddetto completamente quanto da tre anni Berlusconi e Tremonti hanno sempre sostenuto» (Roberto Pinza, Margherita).
Insomma, in dieci giorni Monti ha fatto in tempo a passare da battitore libero a ostaggio prima e vittima poi dei veti incrociati nella maggioranza, mentre l’ex direttore generale del Tesoro ha prontamente smesso la livrea che occhi maliziosi già gli vedevano indosso.
E ora per Monti è tutto più difficile. La sua corsa senza successo per restare a Bruxelles si è trasformata, per le vicende degli ultimi giorni, in una partita più politicienne che bipartisan, tanto più dopo che l’ex commissario all’Antitrust ha fatto tappa a Budapest al congresso del Ppe. Il danno per lui, oltre a vedersi sfilare da Buttiglione il posto nel nuovo esecutivo di Barroso, è anche di veder seriamente compromesso quel profilo squisitamente super partes che lo rendeva perfetto titolare del Tesoro in un futuro ipotetico governo Prodi.
Non è questione di rottura personale. L’ex premier fu tra i primi a essere informato da Monti dell’offerta formale ricevuta da Berlusconi. Per Monti era anche un modo per chiedere consiglio sul da farsi. Prodi gli suggerì di rifiutare e puntare tutto a restare in Europa, pronto magari a fare da ufficiale della riserva per l’Ulivo. Uno scenario che in sole due settimane è diventato altamente improbabile.
Il primo problema per Prodi è che Monti si è suo malgrado trasformato, se non nel simbolo, di certo nell’acceleratore di quel disegno neocentrista che, nel suo ultimo intervento pubblico sulle cose italiane, il Professore ha dichiarato con soddisfazione sconfitto sul nascere. Soprattutto, il nome dell’ex commissario non è più spendibile con l’ala sinistra della coalizione.
Dopo i fatti dell’ultimo mese non solo Fausto Bertinotti, ma nemmeno gli altri partitini della izquierda, accetterebbero nel team per palazzo Chigi la presenza di Monti, considerato ormai incarnazione della teoria bertinottiana sull’omologazione dei poli nel bipolarismo all’italiana. Conferma una fonte prodiana: «Da qui a due anni possono accadere molte cose, ma certo oggi non scommetterei su un Monti ministro dell’Economia».
C’è chi aggiunge malizioso: silurato Tremonti, azzoppato Monti, non è un caso che vispo più di tutti sia proprio Visco, lestissimo a rendere omaggio alla trasparenza del Dpef di Siniscalco. Lui sì in sorprendente ascesa e con un curriculum che lascia spazi di manovra: amatiano per formazione (a proposito di ufficiali della riserva), dalemiano per fondazione (è stato consulente di Italianieuropei), Siniscalco sembra già pronto per contendere a Beppe Pisanu la palma di ministro più apprezzato dall’opposizione. E magari, chissà, per soffiare a Monti l’etichetta di guru del neocentrismo.
Copyright © Il Riformista per Wall Street Italia, Inc. Riproduzione vietata. All rights reserved