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MONTEZEMOLO E IL RITORNO DELLE ELITE

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(WSI) – Non si può affatto escludere che abbia ragione Marco Benedetto, l’ex amministratore delegato del gruppo Espresso, secondo il quale sarà Luca di Montezemolo il prossimo federatore dell’opposizione politica al centrodestra, e il candidato premier del centro-centrosinistra (Pd+Udc).

Non si può escluderlo per molte ragioni. La prima delle quali è che Montezemolo è il più berluscon-tipo tra tutti i potenziali sfidanti dello strapotere di Berlusconi. È popolare (leggere i sondaggi per credere); è imprenditore; è sportivo e ha vinto anche lui qualche campionato del mondo (con la Ferrari, come il Cavaliere li ha vinti col Milan); è così lontano dalla storia della sinistra italiana da poter tentare di traghettarla presso l’elettorato moderato come riuscì a Prodi (nel secondo tentativo solo in parte, a dire il vero).

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Se Montezemolo ha in testa un progetto del genere – e non si vede perché non dovrebbe averlo – avrà bisogno di una lunga marcia di avvicinamento. Al momento, la presidenza della Fiat lo inchioda in un ruolo scomodo, che non consente diversioni politiche; non quando guidi un’azienda travolta dalla crisi e che ha bisogno come il pane di buoni rapporti col governo in carica. Ma quanto può ancora durare il «servizio» del Cordero alla famiglia Agnelli, e la sua diplomatica sorveglianza sullo spigoloso Marchionne? Un anno? Due anni? Per allora, la legislatura non sarà ancora finita, e anzi verrà esattamente il momento in cui i partiti di opposizione si guarderanno in giro per decidere che carta giocare nel 2013.

A ben vedere, il ritorno di Prodi sulla scena pubblica non vale dunque solo per la stoccata a Veltroni. Accusandolo di aver fatto cadere il suo governo, il Professore ha messo Walter nello stesso girone infernale in cui aveva gettato in passato D’Alema, accomunando finalmente i due storici duellanti in qualcosa: la passione masochistica di far cadere i governi dell’Ulivo. Ma la riapparizione del Professore ha il valore di ricordarci che al momento il modello Prodi, e cioè la scelta di una personalità esterna ai partiti, sembra essere tornata l’opzione numero uno del centrosinistra.

Chi viva, vedrà. Ma il nome di Montezemolo richiama anche un’altra novità, di cui si vedono segni sempre più evidenti. E cioè che l’élite italiana, l’establishment se volete, il complesso bancario-industrial-mediatico che sembrava annichilito dalla crisi economica e sempre più incapace di svolgere un ruolo autonomo nella partita del potere, sempre più succube di un ritorno in grande stile della politica nella cabina di comando sotto i colpi di immagine e di sostanza inflittigli da Giulio Tremonti, comincia invece a dare qualche segnale di resistenza.

C’è Corrado Passera, che dice che quando è troppo è troppo, a proposito dei prefetti mandati da Tremonti a vigilare sul credito bancario, spezzando una lancia in difesa di Draghi. E – badate bene – Passera non può essere fatto passare come il solito «banchiere di sinistra», perché con Berlusconi ha collaborato e collabora, la cordata Alitalia è cosa sua, si è fatto sistema quando è servito anche col nuovo potere berlusconiano. Solo che Passera, come molti altri, non ci sta a fare il capro espiatorio nel «blame game» di Tremonti, il quale di fatto dice alle piccole aziende che se i rubinetti del credito si sono chiusi è colpa dei banchieri, gattoni ingrassati dal denaro delle stock options e delle liquidazioni d’oro («fat cats», li chiamano gli inglesi).

Poi c’è la Marcegaglia, a lungo in sonno in Confindustria, ma che ora reclama «soldi veri» dal governo, forse perché la sua base non fa distinzioni tra destra e sinistra ed è solo allarmata da una mano pubblica che in Italia fa meno che altrove per fermare l’uragano in arrivo. L’applauso che la Emma nazionale ha provocato nella sua platea esaltando la resistenza di de Bortoli, autore del gran rifiuto Rai, sembrava essere più di una testimonianza di affetto, e quasi una rivendicazione di autonomia, nei confronti di chi volesse fare del Sole24ore un astro minore, eclissandone l’indipendenza dal potere politico (anche se di quell’applauso, curiosamente, proprio sulle cronache del Sole non c’era traccia).

Infine c’è la vicenda del Corriere, troppo complessa per capire come finirà, ma sulla quale l’asse dei resistenti – di cui Bazoli, soprattutto ora che Prodi è tornato a parlare, resta un protagonista – sarà chiamato a dire la sua, se e quando verrà in discussione il ruolo di Paolo Mieli, che in questi anni ha sapientemente fatto da ago della bilancia proprio tra i presunti poteri forti della élite economico-finanziaria e i sempre più forti poteri della politica, usciti rafforzati dallo tsunami della crisi.

Di questo conato di resistenza dei poteri non berlusconiani, e comunque non tremontiani, in un’Italia sempre più fortemente berlusconiana, ci sono anche molte altre ragioni. Non ultima la svolta che è avvenuta nel Pd con l’elezione di Franceschini alla segreteria. Con quella scelta, il partito a vocazione maggioritaria, destinato dunque ad esprimere un suo candidato alla premiership del paese, ha ceduto il passo a un partito con ambizioni minori. Con Franceschini, il Pd torna a sognare più modestamente una centralità in un sistema di alleanze, la golden share di uno schieramento più vasto, in cui bisognerà di nuovo tenere insieme un fronte molto ampio e molto variegato di interessi e di posizioni. Il tipo di coalizione che, in passato, ha sempre richiesto un approvviggionamento all’esterno di idee, di cemento e di leadership.

D’altra parte, prima o poi la crisi finirà, e quando finirà potete scommettere che gli ex poteri forti torneranno a sentirsi tali. Almeno se, nel frattempo, avranno resistito all’offensiva di Tremonti. Ragion per cui qualcuno comincia a resistere.

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