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MOLLANO I TASSI, TORELLO IN BORSA

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*Michele Pezzinga e’ lo strategist di CentroSim. I suoi commenti non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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(WSI) – Il dato di inflazione USA stavolta accontenta tutti: con una variazione mensile nulla per l’indice calcolato al netto di alimentari ed energia ed un +0,5% a livello complessivo, destinato comunque a ridimensionarsi a causa della brusca discesa in corso nelle quotazioni del greggio, i timori di crescenti pressioni sui prezzi al consumo sono rientrati, a duplice beneficio di bond e Borse.

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Si interrompe infatti la lunga progressione al rialzo registrata dall’incremento annuo per il dato “core”, iniziata a fine 2003 da quota +1,2% e giunta fino al +2,4% dello scorso marzo, da cui si è ora ridiscesi ad un più rassicurante +2,2%. Musica per il decennale tedesco, che ha toccato un nuovo massimo storico, con rendimenti scesi fin sotto il 3,29%, e per quello americano, che con i nuovi progressi messi a segno ha toccando il 4,08%, e ha ora con tutta l’intenzione di puntare verso la soglia del 4%.

La BCE è vista immobile sempre più a lungo, praticamente per l’intero 2005, mentre sui Fed funds le attese di rialzo si smorzano nell’area 4% o poco più anche nel corso del 2006. Si inizia dunque ad intravedere la fine della manovra restrittiva sui tassi, cui potrebbero mancare a nostro avviso anche meno dei 2-3 ritocchi da un quarto di punto ancora mediamente attesi entro fine anno. E poichè “l’inizio della fine” in passato solitamente innescava anche un deciso movimento al rialzo a Wall Street, la buona reazione delle Borse sembrerebbe quanto mai condivisibile.

Ad avvalorare queste ipotesi favorevoli per l’inflazione ha contribuito anche la decisa flessione dei prezzi del greggio, con il future sul WTI, il contratto di riferimento in Nordamerica, precipitato di oltre il 3% a $47,25 il barile, addirittura quasi un dollaro sotto la quotazione del Brent, che solitamente si colloca invece sempre a sconto di un 2-3%.

Sarà l’abbondanza di offerta disponibile sui mercati fisici, sarà la speculazione, che ora è tornata a spingere al ribasso, forse alimentata dalla chiusura forzata di posizioni da parte di alcuni hedge fund in difficoltà, fatto sta che, come immaginavamo, si sta creando spazio per un’ulteriore, interlocutoria discesa delle quotazioni, diciamo anche fino all’area di sostegno dei 42-44 dollari. Il rimbalzo del comparto oil in Europa (+1,7%) non sembra quindi molto intonato con queste prospettive a breve per il greggio, alle quali il settore sembra essere comunque correlato in misura molto significativa, al di là di tutte le considerazioni addotte dagli analisti circa l’importanza di numerose altre variabili aziendali (riserve disponibili, costi crescenti di esplorazione, ecc.). Forse si è trattato di un movimento corale di ricoperture, che da noi tra l’altro ha interessato in particolare molti dei titoli che lunedì prossimo staccheranno i dividendi (banche quali Unicredit, Monte dei Paschi e BPVN, e alcune utilities, da Autostrade a Terna).

Se nell’immediato la soddisfazione per il buon dato di inflazione USA accomuna tutti i rialzisti, sui bond come sulle azioni, l’interpretazione del segnale e le sue valenze a più lunga scadenza continuano però a divididerli.

Per noi è la conferma non solo che l’inflazione non rappresentava un problema serio, ma anche che la congiuntura sta rallentando; il che a maggior ragione dovrebbe però confermare, assieme a minori tensioni sui prezzi per i mesi a venire, anche uno scenario non così roseo sotto il profilo della crescita economica. Ancora positivo per i bond, dunque, ma in prospettiva meno per le azioni, dove appunto varrebbe la pena privilegiare già da ora i comparti più difensivi.

Quanto alle speranze di riavvio della crescita in Europa, il freno collegato all’effetto Cina si sta facendo sentire in misura crescente: anche la Francia ora segnala un indesiderato peggioramento del deficit commerciale con l’estero, salito a 2,1 mld di euro in marzo, mentre l’Italia affonda con un disavanzo di 865 mln anche in marzo. Il nostro deficit del 1° trimestre sale quindi a 4,5 mld, peggior risultato a partire dal lontano 1991; e se allora a salvare la situazione ci pensò una provvidenziale svalutazione, stavolta anche questa via appare del tutto impraticabile.

Non a caso quindi in sede di UE aumentano pericolose tentazioni protezionistiche, necessarie per salvare dall’effetto Cina più realtà come la nostra, esposte su settori di retroguardia (tessile, calzature, ecc.), che non la Germania di turno, che con la meccanica e l’impiantistica trova invece proprio nella Cina un importante sbocco di export (non a caso la sua bilancia commerciale viaggia in largo attivo).

E non sarà certo l’auspicata flessibilità dello yuan a modificare in misura significativa lo squilibrio di competitività che oggi rende così imbattibili, dal lato dei costi, i prodotti cinesi. Oggi comunque ancora un po’ di dati USA sul mercato del lavoro (i sussidi di disoccupazione, alle 14:30) e i livelli di attività, passati (il leading indicator di marzo, alle 16:00, visto in ulteriore calo dello 0,2%) e attuali (l’indice della Fed di Philadelphia, alle 18:00, visto in lieve flessione dopo il forte rimbalzo precedente).

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