Società

MILIARDI E MILIARDI DI PERDITE OCCULTATE

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(WSI) – Sta affondando (in alcuni punti di ben un centimetro l’anno) l’isola di Dubai a forma di palma, ossia l’ultimo simbolo dell’enorme bolla creditizia che ha scatenato l’attuale crisi economica. Lo sprofondamento di Palm Jumeirah, destinata ad essere «riconquistata» dal mare, può essere considerata una metafora dell’attuale situazione economica. Il crack dell’Emirato ha infatti rammentato che l’enorme volume di indebitamento accumulato negli anni non ha subito erosioni. Anzi, in questi ultimi mesi è fortemente aumentato soprattutto come debito pubblico statale.

La questione non riguarda solo l’Emirato di Dubai o le finanze statali della Grecia (il cui debito è stato declassato dalle agenzie di rating), ma Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che quest’anno registreranno un deficit pubblico superiore al 10% del PIL, e persino il Giappone, dove per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale l’emissione di obbligazioni statali supererà l’intero gettito fiscale del Paese del Sol Levante.

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Non sorprende che il rischio del debito torni ad pesare sui mercati finanziari, i quali si stanno lentamente risvegliando dal sogno nel quale tutto si sarebbe presto rimesso a posto. Non sorprende nemmeno che queste preoccupazioni non vengano più occultate dalle autorità monetarie. Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Board, ha infatti dichiarato che vi è un’enorme quantità di debito pubblico e privato destinata a venire a maturazione nei prossimi anni. Ad esempio – ha spiegato – «vi sono 4mila miliardi di dollari di debito privato di bassa qualità garantito da proprietà immobiliari; vi è poi l’enorme quantità di debito pubblico degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, dell’Italia, della Grecia, della Spagna, della Germania e così via». E ha concluso: «Considerando le migliaia di miliardi di debiti bancari, cui bisogna aggiungere il debito pubblico, se per varie ragioni i tassi di interesse dovessero salire, potrebbe materializzarsi un rischio per i debiti sovrani».

Tradotto in parole povere, se il costo del denaro dovesse cominciare a salire vi sarebbero rischi di nuovi fallimenti bancari e pure il rischio di insolvenza di alcuni Stati con conseguenti crisi valutarie. La montagna di migliaia di miliardi di debito, esorcizzata a partire dall’inizio di marzo dalle immissioni di liquidità delle banche centrali e dal rally delle borse, non è miracolosamente scomparsa (né del resto avrebbe potuto scomparire): oggi incombe non più solo sul sistema finanziario, ma sulle obbligazioni statali e sulla solidità delle valute. Dunque l’enorme dispendio di risorse pubbliche per salvare il sistema bancario, ossia il trasferimento ai contribuenti delle ingenti perdite accumulate dal sistema finanziario, potrebbe avere come risultato solo quello di aver fatto guadagnare un po’ di tempo.

Anche la tanto decantata ripresa dell’economia assomiglia più ad un’illusione che alla realtà. Gli interventi di Governi e banche centrali hanno frenato il ritmo di contrazione dell’economia e hanno permesso una stabilizzazione a bassi livelli dell’attività produttiva. Ma ora emergono i primi segnali di una possibile ricaduta in recessione. Essi provengono dal Giappone, dove il Governo ha dovuto varare un nuovo piano di stimolo fiscale da 83 miliardi di dollari; dagli Stati Uniti, dove l’indice del settore più importante dell’economia, quello dei servizi, segnala una contrazione dell’attività e dove il presidente Obama ha annunciato un piano da 200 miliardi per la creazione di nuovi posti di lavoro, al fine di combattere una disoccupazione che ufficialmente si aggira attorno al 10%, ma che in realtà supera il 16%.

Anche in Europa vi sono segnali non incoraggianti. Ad esempio, in ottobre è diminuita la produzione industriale tedesca, un dato che non parla certamente a favore di una solida ripresa. Il numero delle persone senza lavoro è destinato purtroppo a salire ulteriormente, poiché, come è accaduto in molti altri Paesi europei, il ricorso al lavoro ridotto ha rinviato le decisioni di licenziamento.

Dunque, come abbiamo sempre sostenuto, le misure di Governi e banche centrali non erano adeguate all’entità di questa crisi. Si è ipotizzato che ricreando la fiducia nel settore finanziario si sarebbero create le premesse per smaltire i miliardi e miliardi di perdite ancora nascosti nei bilanci delle banche (secondo il Fondo Monetario Internazionale le banche hanno finora denunciato solo la metà delle loro perdite), per ridurre l’enorme indebitamento che grava su famiglie, imprese e Stati e quindi per rilanciare l’economia. Invece dalla crisi è improbabile che si esca se non si affronta alla radice la realtà dell’enorme quantità di debiti inesigibili e delle perdite ancora nascoste nel sistema finanziario.

Non è quanto è stato fatto finora né quello che è prevedibile si faccia nel prossimo futuro, poiché l’opzione di ripartire dal rilancio dell’economia reale continua ad essere fortemente avversata dal sistema finanziario internazionale, il cui potere di influenza sulle scelte politiche non è affatto scemato, nonostante abbia contribuito a creare questa crisi.

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