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METTIAMO FUORILEGGE LE SOCIETA’ OFFSHORE

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Victor Uckmar è per la linea dura. Professore di diritto tributario e avvocato fiscalista tra i più noti a livello internazionale invita ad escludere dal mercato tutte quelle società che hanno «appoggi e propaggini nei paradisi fiscali» perché «non esiste un uso buono delle società off shore».

Professore, a cosa servono le società off shore?

«E’ una strategia nata più di venti anni fa per mettersi al riparo da un regime fiscale vessatorio, un sistema con tasse fuori dal mondo. Anche grandi gruppi pubblici, come l’Eni, la stessa Iri, avevano società all’estero».

Anche lo Stato nei paradisi fiscali?

«No, non proprio nei paradisi fiscali ma in alcuni paesi dove il regime delle tasse era più leggero, come il Lussemburgo o l’Olanda. L’unico scopo però era quello di ridurre il peso delle imposte. Poi l’appetito vien mangiando ed è iniziata la corsa ai paradisi e si è passati all’elusione, all’evasione».

Ora si è andati ben oltre.

«Il primo grande caso fu la Montedison. Venne costruita una costellazione oscura al riparo dai controlli per far passare fondi, tangenti, per abbellire i bilanci».

Più di dieci anni dopo è cambiato qualcosa? Intendo dire sul fronte dei controlli.

«Il caso della Parmalat dimostra che non solo non è cambiato nulla. Anzi. I sistemi di elusione si sono raffinati, così come l’offerta delle banche e dei paradisi fiscali».

L’Unione europea ora dice che vuole riscrivere le regole anche nei rapporti con il mondo off shore.

«Con il Centro Studi e Ricerche Tributarie dell’Università Bocconi ero già stato incaricato nel 1999 di affrontare la questione. L’obiettivo era inquadrare una serie di strumenti per arginare il fenomeno».

Che fine ha fatto quel rapporto?
«Non solo so. Non è mai stato pubblicato. D’altro canto si tratta di andare a colpire interessi molto forti. Ci si scontra con lobby molto potenti».

Ha avuto difficoltà nello stilare il rapporto?
«Avevo toccato con mano che il problema degli off shore era molto complesso. Non posso negare che in alcuni momenti mi sono sentito scoraggiato. O meglio preoccupato».

Perché?

«Un esempio inquadra bene quali e quanto alte siano le barriere dei segreti dei paradisi fiscali. Durante il lavoro per la commissione avevo fatto una serie di interviste. Tra i tanti avevo anche incontrato Rudolph Giuliani che a quel tempo si occupava per conto dell’Fbi della lotta contro il traffico di droga e i narcotrafficanti. Presentarono molto materiale sulla criminalità, le mappe dei paesi produttori, l’organizzazione della malavita in giro per il mondo fino negli Stati Uniti. Dopo due ore di schemi e lucidi, io chiesi quali erano i risultati e i poteri in materia di controlli finanziari. Insomma se sapevano come si muoveva tutto quel denaro sporco».

E quale fu la risposta?

«Giuliani, un uomo che poi ha dimostrato tutta la sua determinatezza, mi rispose seccamente: “Noi non ci occupiamo di finanza”».

E convinzione di molti, però, che negli Stati Uniti i controlli siano più stringenti rispetto all’Europa e ancora di più rispetto al caso italiano.

«Dopo l’attacco dell’11 settembre del 2001 sembrava che la lotta al terrorismo portasse anche risultati sul fronte dei controlli finanziari e fiscali soprattutto in quelle parti del mondo dove è facile far transitare ingenti somme di denaro senza che nessuno ti faccia troppe domande. Anche l’Ocse aveva stilato una lunga lista di paesi, che si possono definire altrettanto canaglia, dove ottenere informazioni su società e conti è praticamente impossibile. Ora è stata cambiata. La lista adesso comprende solo i paesi che non consentono scambi di informazioni. Così i controlli si sono di nuovo ammorbiditi e avere risposte resta difficilissimo».

Ha avuto esperienze dirette?

«Due anni e mezzo fa curavo gli interessi di alcune società tedesche e austriache che si erano affidate ad operatori argentini. Avevano depositato alcune somme di denaro alle isole Cayman. Poi si venne a scoprire che quei soldi erano stati reinvestiti in Argentina. Con il collasso del paese sudamericano è andato quasi tutto in fumo. Io ho provato a chiedere conto alla PriceWaterhousecoupers prima e poi alla Corte di giustizia dell’isola caraibica. Non sono mai riuscito a ottenere una risposta».
A quali risultati era giunto il suo rapporto per l’Unione Europea?

«Si può agire in due direzioni. Contro i governi e contro le società. La prima strada, però, è praticamente impossibile da percorrere anche se alcuni paesi hanno migliorato la trasparenza e le leggi finanziarie. I tempi comunque sono troppo lunghi e ci sono altrettanti conflitti di interesse. Più facile agire invece sulle società finanziarie e di consulenza che hanno propagini nei paradisi fiscali. Bisogna colpirle tutte, escluderle dal mercato. Ci dovrebbe essere un embargo sulla Bank of America, tanto per dirne una, coinvolta nel crack della Parmalat. Dovrebbe esser impedito, almeno alle società quotate in Borsa, di operare negli Stati off shore».
Insomma lei sarebbe per metterle al bando?
« Magari con l’esclusione di quelle società che in quei paesi svolgono un’attività operativa. Dovrebbe essere l’unica eccezione».
Ci vorrebbe una specie di Consob planetaria per ottenere questo risultato.

«Se si mettono d’accordo Unione Europea e Stati Uniti se ne taglia fuori già una bella fetta. E poi ci sono le regole di Basilea sulla trasparenza per la contabilità, i soci. Basterebbe potenziarle e applicarle davvero su vasta scala».

Lei non crede che ci sia, perdoni la semplificazione, un uso «buono» delle società off shore?

«Lo posso escludere. Ben che vada servono per evadere le tasse. I fini sono sempre e comunque illeciti. Bisogna stroncare questi comportamenti da banditismo economico. Non basta fare moral suasion sui governi, bisogna dare loro un vero ostracismo».

Lei crede che ci siano altri casi Parmalat in giro per i paradisi fiscali?

«Il caso di Tanzi mi auguro che sia macroscopico. Gli illeciti sono così grandi da non poter credere che sia una pratica diffusa. Per quanto posso ricostruire dalla mia esperienza, in genere si va da quelle parti per pagare meno tasse, per eludere il fisco non per costruire un castello di vere e proprie rapine ai danni degli Stati e dei risparmiatori. Mi auguro che il crack Parmalat sia un caso isolato».

A proposito di danno. In molti, soprattutto all’estero, invocano un nuovo rischio paese per l’Italia. Concorda?

«Questo rischio c’è anche perché una parte della stampa internazionale sta portando avanti un campagna molto aggressiva. Parmalat è finita sulle prime pagine dei giornali stranieri con un’evidenza maggiore rispetto allo scandalo Enron. C’è qualcuno che aizza. Si approfitta per cercare di fare rialzare anche i rendimenti dei titoli di Stato e per allontanare gli investimenti dall’Italia».

A Collecchio hanno fatto tutto Tanzi, Tonna e i loro uomini oppure c’è la complicità di qualcun altro?

«A questa domanda potranno rispondere solo le inchieste della magistratura. Certo le società di revisione sono andate a braccetto con la Parmalat. Non capisco. Io, nel mio piccolo, alla fine dell’anno sono sommerso di domande da parte di chi fa il mio bilancio. A Parma non si è accorto nessuno di nulla. Sono sbalordito soprattutto perché questo sistema andava avanti da 10-15 anni».

Che fare?

«Anzitutto impedire, come negli Usa, che le società di revisione forniscano anche consulenza. La separazione deve essere netta. La consulenza è strapagata e così si finisce nella collusione. Poi si deve intervenire sulla governance anche se io non credo nell’efficacia dei membri indipendenti nei consigli di amministrazione come avviene negli Stati Uniti. Per lo meno si potrebbe rendere obbligatoria la distribuzione dei documenti molto dettagliati ai consiglieri di amministrazione, con un buon anticipo, almeno dieci giorni prima della riunione».
Adesso tutti chiedono di cambiare le regole.
« Intanto la nuova legge sul diritto societario non ha certo aiutato».

Anche lei accusa il falso in bilancio?

«In questo caso è più grave la norma che ha trasferito la nomina dei controllori interni dall’assemblea dei soci al consiglio di amministrazione. In questo modo i controllati nominano i controllori».

Gli Usa possono esser un modello?

«Non credo nell’esportazione dei modelli. Certo in America, dopo lo scandalo Enron, sono arrivati persino all’efficacia retroattiva delle sanzioni penali. Per i nostri giuristi è un obbrobrio, negli Usa però lo hanno fatto».

Possibile che le banche non si siano mai accorte di nulla?

«Credo che ci siano delle responsabilità soprattutto all’estero. Alcune operazioni sono state per lo meno avventate».

Le banche italiane si dicono parti lese. La magistratura sarà chiamata a fare chiarezza anche su questo punto. Però, non è preoccupante che un banchiere non sia in grado di prevenire un simile disastro?

«I banchieri potevano avere informazioni utili dalla centrale rischi. Anche l’Ufficio Italiano Cambi può essere utile nelle operazioni con l’estero. E infatti so che alcune banche si sono mosse per tempo, invitando i propri clienti ad alleggerire le posizioni su Parmalat».

C’è poi una battaglia politica sugli organi di controllo. Che cosa si deve fare?

«Io di politica non me ne sono mai occupato e non voglio occuparmene ora. Certo sono anni che si dice di dare maggiori poteri alla Consob e dove poter utilizzare la Guardia di finanza per fare le ispezioni. Anche i poteri della Banca d’Italia vanno rivisti. Ma nel senso che vanno potenziati».
Il governo ha annunciato che manderà i finanzieri nei paradisi fiscali. Che cosa potranno fare?
« Potranno abbronzarsi al sole e poco più. In quelle isole l’ostracismo è assoluto».

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