(WSI) – Terminato il primo trimestre del 2010 si può fare qualche bilancio. Tra le classi di asset finanziari la peggiore è stata il cash. Il cash, inteso come titoli fino a 12 mesi, ha la grande dote di non andare praticamente mai sotto zero ma in una fase come questa (che si prolungherà per tutto quest’anno e per il prossimo) ha anche il grande difetto di non sollevarsi da zero nemmeno con la gru.
Dopo il cash la performance meno brillante in questi tre mesi è stata quella dei bond governativi. Meglio sono andate le obbligazioni corporate di buona qualità. Meglio ancora i bond emergenti in valuta locale e poi, salendo ancora nei risultati, le obbligazioni di bassa qualità. A battere tutti è stata, tra le maggiori, la borsa americana, salita del 5 per cento nonostante l’ampia correzione tra gennaio e febbraio.
Dai diamanti non nasce niente, cantava De André, dal letame nascono i fior. La borsa ungherese da inizio anno sale del 14 per cento. L’Islanda che ripudia i tassi da usura che le chiedono gli inglesi sale del 15. La Romania che secondo alcuni era avviata verso anni e anni di stagnazione sale del 27. L’Estonia, smagrita dopo la feroce svalutazione interna (cambio stabile e riduzione di tutti gli stipendi), invece di trascinare nel baratro le banche
svedesi sale come borsa del 41 per cento. L’Ucraina, che deve sempre fare default a giorni e non lo fa mai, sale del 64 per cento.
Cresce del 25 per cento la borsa nigeriana, dopo la radicale operazione di pulizia del sistema bancario. 25 anche per il Kenya. In Asia non sono i temi più ovvi a distribuire soddisfazioni. La Cina, dove il governo usa la borsa come strumento di politica monetaria, Shanghai scende del 5 per cento mentre il Pil sta crescendo a una velocità annualizzata del 13 per cento. La borsa cinese va comprata quando l’economia va male e venduta quando cresce sopra la velocità di crociera dell’8 per cento. L’eccezione, in questo momento, sono i titoli delle grandi banche, che la banca centrale, per bocca del vicegovernatore Zhu, definisce sottovalutati.
Anche l’India smaltisce l’ipercomprato del 2009 e chiude il trimestre esattamente dove l’aveva iniziato. Il Giappone delude un’ennesima volta i cacciatori di outperformance e si limita a concedere un 5 per cento. In compenso il Bangladesh sale del 23 per cento, molto buono ma pur sempre la metà della borsa di uno dei paesi più ricchi e meno popolati del pianeta, la Mongolia (più 54 per cento).
Descritta così, sembra una trascrizione dal manuale della ripresa ciclica perfetta, con le performance che migliorano con il salire del livello di rischio. Questa però non è (o meglio, non è solo) una normale ripresa ciclica. E’ qualcosa a metà strada tra la normale ripresa ciclica e la New Normal di Pimco, un mondo malaticcio che passa anni, non mesi, in dolorosa disintossicazione.
Le materie prime si incaricano di stravolgere il pigro schema della ripresa classica. Dovrebbero avere reso più di tutto, più ancora delle azioni, e invece sono state la classe di asset peggiore, l’unica con segno negativo, peggio ancora del cash. Ma come, si dirà, con il greggio a 84 dollari e il rame di nuovo fortissimo? Sarà, ma l’indice Crb delle materie prime, che il 31 dicembre stava a 283.38, chiude il trimestre a 273.34. Non di solo greggio e rame vive l’uomo, ma anche di gas e di carbone, in questa fase abbondantissimi (si scoprono continuamente nuovi giacimenti e l’estrazione viene effettuata con nuove tecnologie che aumentano notevolmente la resa).
Non di soli minerali vive l’uomo, ma soprattutto di derrate agricole abbondantissime grazie ai raccolti record di cereali e al minore utilizzo del mais per produrre etanolo.
La bolla delle materie prime non si riesce a scorgerla nemmeno con la lente d’ingrandimento. Il petrolio è agli stessi livelli di inizio 2006, i cereali idem, il gas naturale è sotto. Quanto all’inflazione salariale, per la prima volta da trent’anni le retribuzioni nominali dei paesi sviluppati hanno smesso completamente di crescere. Gli aggregati monetari non salgono e le riserve in eccesso delle banche continuano a essere depositate a tassi irrisori presso le banche centrali. Nemmeno la caduta recente dei corsi dei Treasuries induce le banche a comprarli. La Fed, dal canto suo, chiude ufficialmente il capitolo del quantitative easing e cessa di acquistare governativi e agenzie.
In questo quadro di inflazione invisibile e in discesa il dibattito sulla fine dell’età dell’oro dei bond è paradossalmente più vivace che mai. Dopo tutto i bond salgono di prezzo dal 1982 e i rendimenti sono ai minimi. E’ comprensibile che il tema del loro destino appassioni gli animi.
La dispersione delle opinioni è impressionante. A un estremo si dice che all’età dell’oro dei bond sta per seguire un’età di orrori senza fine. Ogni uomo, donna e bambino sul pianeta deve stare al ribasso sui titoli di stato, dice Nassim Taleb.
Il pessimista più autorevole e articolato è Greenspan. La montagna del debito sanitario e previdenziale è così imponente che sarà impossibile non ricorrere all’inflazione. In realtà Greenspan va ancora più in là e sostiene che nemmeno stampando dollari giorno e notte si verrà a capo del problema, semplicemente perché non ci sono i beni fisici che sono stati promessi. Ai pensionati, infatti, si potranno in futuro consegnare i dollari nominali promessi (freschi e fruscianti di stampa), ma ai malati sarà materialmente impossibile garantire le prestazioni sanitarie.
Greenspan non lo dice, ma è evidente che la soluzione arriverà con il sistema delle code sempre più lunghe per le prestazioni e con il mancato accesso ai nuovi farmaci, tipicamente i più costosi. Si può allargare la copertura sanitaria anche ai marziani, ma se le macchine per la risonanza magnetica sono sempre le stesse (o vanno addirittura tagliate) i tempi si allungano. Per fortuna nel frattempo qualche paziente sarà così cortese da ritirarsi dalla scena da solo.
Per Greenspan, quindi, i bond sono un incidente che aspetta di accadere. La sua è però un’analisi strutturale, non ciclica. La ripete infatti da più di un decennio, un po’ come un vulcanologo che consigli di non prendere casa sotto il cratere perché sarà fra un anno o magari tra dieci, ma finirà comunque malissimo.
Scendendo di intensità nel pessimismo troviamo varie scuole di pensiero a sfondo più o meno ciclico. La scuola più classica è formata da quelli che non appena sentono parlare di ripresa ciclica portano automaticamente la mano ai bond per spingerli fuori dal portafoglio. Ci sono qui due sottoscuole. A quella ortodossa è sufficiente una ripresa qualsiasi, a quella riformata per liquidare i bond occorre una ripresa sostenibile. Poiché in questi giorni, in previsione del primo dato positivo sull’occupazione, si moltiplicano le voci (provenienti anche da dentro la Fed) che parlano di sostenibilità (ovvero irreversibilità) della ripresa, ortodossi e riformati si ritrovano uniti come venditori.
Chi professa il credo della ripresa ciclica dovrebbe essere per coerenza pieno di azioni per l’appunto cicliche e di materie prime. Questa incombenza è invece risparmiata a quanti motivano il loro rifiuto per i bond non con la crescita economica ma con lo squilibrio tra un’offerta di titoli in continuo aumento da parte dei governi e una domanda che nella migliore delle ipotesi si può immaginare stabile. Nelle versioni più radicali il rifiuto per i titoli di stato viene motivato sulla base del deterioramento del merito di credito del debitore. Qualcuno, sentendo questi discorsi, passa dalle parole ai fatti e paga titoli corporate (anche bancari e malmessi) più del debito sovrano del loro paese (negli Stati Uniti il tasso swap a 10 anni rende da giorni meno dei Treasuries di pari durata).
All’estremo opposto di quanti sostengono la fine dell’età dell’oro per i bond (in particolare governativi) ci sono pochi arditi che sostengono che l’età dell’oro è appena cominciata e che potrà durare altri dieci anni e forse anche di più. Viene in mente David Rosenberg, ma il più articolato sostenitore di questa tesi è Richard Koo. Prima di passare a Nomura, Koo ha lavorato alla Fed e ha studiato quella che ha definito la crisi da stato patrimoniale del Giappone. Quando c’è una massa enorme di debiti e quando su questa massa non si fa un bel default risolutivo ma si cerca di ripagare faticosamente e lentamente il creditore, la domanda privata tende a implodere e va sostituita con spesa pubblica, pena il collasso del sistema. Il debito pubblico sostituisce quello privato e va considerato provvidenziale.
L’errore più grave, dice Koo, è quello di invocare la rapida fine del sostegno pubblico richiedendo quanto meno una exit strategy precisa nei tempi e nei modi. Il paziente è in terapia intensiva e la peggiore cosa che si può fare a un infartuato appena operato è parlargli di quando e quanto dovrà pagare per le ingenti spese di ricovero. E’ il modo migliore per deprimere e fare agitare il malato, prolungando la convalescenza e alzando i costi per le cure.
Passate in rassegna alcune tra le posizioni più significative, proviamo adesso a dire qualcosa di nostro.
E’ possibile che nei prossimi anni la crescita globale sia buona, ma i paesi sviluppati sono e resteranno la componente più fragile. La ripresa ciclica dura ormai da nove mesi ma è solo buona in America (quando di solito è molto forte dopo una caduta verticale) e mediocre in Europa.
Il fatto che si tratti comunque di una ripresa ciclica può produrre legittimamente quello che qualcuno ha definito un bear market a bassa intensità sui governativi lunghi. Il fatto che si tratti di una ripresa fragile e che già nella seconda parte dell’anno possa scendere di velocità rende difficile il riproporsi di scenari di bear market duro, come fu il caso ad esempio nel 1999 dopo la fine della crisi asiatica. La fragilità, inoltre, rende reversibile un’eventuale correzione dei bond.
I corporate di ogni ordine, grado e qualità (in particolare con emittenti basati in paesi emergenti) assorbiranno meglio dei governativi la ripresa ciclica e potranno perfino dare vita a qualche piccolo ulteriore rialzo di prezzo. Niente di paragonabile, in ogni caso, con l’erosione dello spread di credito e con i recuperi di prezzo già avvenuti negli ultimi dodici mesi.
L’età dell’oro è certamente finita, ma quella che si apre potrebbe essere l’età dell’argento. Anche senza tracolli, tuttavia, la pigra vita dell’obbligazionista con i suoi rendimenti da qui in avanti modesti si dovrà confrontare non tanto con chi ha azioni tout court ma con chi un paio di volte all’anno cambia l’allocazione del suo portafoglio comprando le correzioni di borsa e vendendo i rialzi.
Strategicamente continuiamo a preferire il merito di credito dei titoli governativi rispetto a quello dei debitori corporate. E’ vero che le imprese in questo momento sono poco indebitate e hanno conti in ordine, ma nell’improbabile caso (ma non impossibile) di un double dip gli stati possono tassare e stampare denaro, le imprese no.
A proposito di tasse, il mercato le sottovaluta nei suoi scenari. Abbiamo visto qualche settimana fa come si potrebbe organizzare a tavolino un’uscita inflazionistica dalla crisi fiscale. I mercati la temono molto e l’inflazione è certamente la più iniqua delle imposte, ma proprio perché iniqua qualche investitore più accorto e veloce degli altri può riuscire a destreggiarsi tra oro e beni reali o indicizzati. Nell’Italia degli anni Settanta o nel Brasile degli anni Ottanta quasi tutti alla fine avevano imparato a organizzarsi.
I mercati, a dire il vero, temono l’uscita finale inflazionistica al punto da chiedere in certe fasi (come questa negli Stati Uniti) un premio di extrarendimento per comprare i titoli pubblici. Gli stati lo possono anche concedere, questo extrarendimento, per riprenderselo poi tranquillamente indietro sotto forma di un aumento delle imposte sulle rendite. Più alti i tassi sui bond, più alte le tasse sui bond.
Il Congresso e l’Amministrazione Obama sono già abbastanza avanti nella definizione degli aumenti delle imposte. In sintesi aumenterà l’aliquota sul quintile di reddito più alto, crescerà la pressione sulle imprese, verrà introdotta una carbon tax, verrà introdotta una sales tax federale in aggiunta a quelle statali già esistenti. Per i redditi da capitale, oltre al 3.9 per cento di maggiorazione già introdotto per finanziare la riforma sanitaria, l’aliquota attuale del 15 passerà molto probabilmente al 25 già l’anno prossimo. Alec Phillips di Goldman Sachs ritiene che questo sarà solo un primo passo in vista di un 29 per cento nel 2013.
Attenzione quindi a quello che si desidera. Chi reclama un risanamento fiscale veloce per evitare l’uscita inflazionistica chiede di pagare subito più tasse. L’ultima parola, inflazione o tasse, spetta comunque ai governi.
E’ questione di gusti, naturalmente, e per questo lasciamo aperta la questione se sia più divertente morire d’inflazione o di tasse.
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