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MERCATI FINANZIARI: MA SONO TUTTE BOLLE?

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(WSI) – Qualcuno parla di «rally da post recessione», come giustificazione dei grandi trend in corso nel campo azionario, valutario e delle materie prime, partiti a scorso marzo. Altri analisti sottolineano invece come i movimenti abbiano raggiunto eccessi non sostenibili a livello di fondamentali, rispolverando il concetto di «bolla» di fronte alle violente correzioni registrate nelle ultime due settimane.

Chi ha ragione? Difficile a dirsi, anche perché a seconda delle asset class prese in considerazione gli indizi di bolle sono più o meno palesi. In ogni caso esiste un denominatore comune alla base tutti i macro trend del 2009: l’enorme liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali per fermare la crisi e far ripartire l’economia. Gestire gli investimenti in questa situazione non è certo facile. Tuttavia ci si può aiutare con due strumenti di supporto: un misuratore dell’intensità del rischio bolla per ognuna delle asset class, sintetizzato dai termometri nei box della pagina a fronte, e una lista di controllo di eventi (mosse Fed e Bce) e di valori grafici la cui rottura farebbe lievitare la probabilità di scoppio di una bolla.

L’AZIONARIO. L’asset più caldo su cui si concentra l’attenzione degli analisti è quello azionario. Basta dare un’occhiata a un qualsiasi grafico di un indice di Borsa per notare quanta strada rialzista è stata fatta dai minimi del marzo scorso. Si va dal +60% circa di Wall Street al +160% del listino di Mosca, passando dal quasi +100% del Ftse Mib. In appena sette mesi. Di fronte a questi numeri la brusca discesa delle Borse vista nelle ultime due settimane ha ridestato gli spettri di una bolla pronta a scoppiare.

Per carità, che una correzione fosse nell’aria nessuno lo nega. Tuttavia volumi e frenesia delle vendite hanno colto di sorpresa. Soprattutto per come gli investitori istituzionali più aggressivi come hedge fund e speculatori di breve hanno approfittano dei primi segnali di incertezza dei listini per prendere profitto. Meno male che a tamponare la crescente emorragia del ribasso sono arrivati giovedì 29 i dati positivi del Pil americano, cresciuto del 3,5% annuo nel terzo trimestre del 2009, che hanno ridato forza al trend rialzista delle Borse europee.

Tuttavia, è troppo presto per parlare di scampato pericolo, almeno secondo gli economisti: per salire ancora ai listini mancano il contributo di variabili chiave come i consumi, già ben indirizzati, e soprattutto della disoccupazione. Come dire, il dato del Pil non ha risolto lo scontro tra pessimisti e ottimisti. Di certo, in pochi si aspettavano ribassi così violenti con cali che in alcuni casi hanno sfiorato il 10% dai massimi. Una cosa va detta subito. I supporti, per ora, hanno tenuto. Ma domani chissà. Una parte sempre più ampia di analisti che hanno speso tempo a guardare ai fondamentali post trimestrali segnalano che i mercati risultano cari, sia in termini quantitativi, come i valori dei multipli prezzo/utili sia in quelli qualitativi, come la natura dei profitti delle banche. A cominciare da Wall Street.

Per l’economista Andrew Smithers, navigato osservatore delle vicende delle Borse Usa, l’S&P500 è sopravvalutato del 40% in termini di indicatori come il Q-ratio, che prende in considerazione il costo di sostituzione degli asset delle società, e come il multiplo price/earning aggiustato per per il ciclo economico, elaborato dal professore Robert Shiller della Yale University. Una situazione che rende il rialzo fragile.

Non sono di questo avviso Barclays e Ing che stanno incrementando gli acquisti di azioni sulle attese, per alcuni bollate come speculative, che gli utili delle corporate Usa continueranno a crescere alimentando la salita del mercato e rendendo meno cari i multipli. Non bisogna poi dimenticare gli amanti della statistica, che esibiscono l’alta probabilità dello sviluppo del rally di fine anno. Un fenomeno poco correlato ai fondamentali. Riassumendo, secondo i dati storici esistono alcuni indizi di listini azionari a rischio bolla, ma i multipli prospettici rendono meno accentuato il pericolo. Ma poiché chi vive sperando e senza stop loss, è esposto a perdite, risulta prudente inserire alcuni campanelli d’allarme. Sullo S&P500 la zona di attenzione è a 1.000/980, sul Dj Eurostoxx50 2.700/2.675 e a 21.900/21.530.

MAREA DI LIQUIDITÀ. È forse la bolla più tesa in circolazione. È quella della liquidità. La storia è nota. La violenta crisi economica e finanziaria sviluppata dallo scoppio della bolla dei mutui subprime dal lontano 2007 è stata curata, e lo è tuttora, con abbondanti iniezioni di denaro liquido. Ma sempre più analisti temono il rischio overdose. Il tema, va detto, è delicatissimo.

Chiudere subito i rubinetti potrebbe soffocare i primi vagiti di ripresa. Di sicuro le dimensioni della cura da cavallo sono impressionanti: migliaia di miliardi di dollari. L’allarme del rischio di scoppio di una nuova bolla è stato lanciato da Nouriel Roubini, il primo tra gli economisti a prevedere la crisi in cui si è avviluppata l’economia americana: «Spesso una delle principali cause delle bolle finanziarie è proprio il costo del denaro troppo basso». E in questo momento il rischio è alto. Roubini ha invitato la Federal Reserve a evitare distorsioni finanziarie.

Il tema della liquidità coinvolge direttamente il mercato obbligazionario. Da un lato chi ha avuto facile accesso alla enorme liquidità a costo zero l’ha reinvestita senza troppi sforzi sulle emissioni dei Paesi dalle economia matura. Quelle che quindi hanno le spalle più grosse. E chi se non gli Stati Uniti? Ma sui Treasury nelle ultime sedute hanno cominiciato a emergere segnali di deterioramento dei prezzi. Si è appena chiuso ad esempio il programma straordinario di acquisto bond della Fed, con un’ultima tranche da 300 miliardi. Il programma aveva avuto avvio a marzo per mantenere bassi i tassi d’interesse sul credito al consumo.

Ma scappare dai TBond così come dal porto poco generoso ma sicuro dei Bund appare prematuro. I rischi di un crollo delle quotazioni sono limitati fino a quando Ben Bernanke e il collega Jean-Claude Trichet non avveranno le tanto citate ma non ancora progettate «exit strategy».

LE ALTRE «BUBBLE». Il rischio di essere di fronte a bolle, più o meno grandi non si limita certo ad azioni, liquidità e bond. Il primo esempio è la debolezza del dollaro, che si riflette nella corsa rialzista di altre asset class, a cominciare dalle materie prime come petrolio e l’oro, alla ripresa dei carry trade; gli investitori istituzionali, a cominciare dagli hedge fund, si indebitano in dollari e comprano valute ad altro rendimento come il dollaro australiano e quello neozelandese le cui quotazioni volano.

È una strategia aggresiva che trova alimento da antichi vizi come l’uso della leva finanziaria e la facilità di accedere al debito. Insomma, è un altro effetto dell’eccesso di liquidità in circolazione. Per l’intensità del movimento, il dollar index è caduto dagli 89 punti di marzo 2009 ai 74,9 del 21 ottobre scorso, c’è chi parla di bolla valutaria. Ma è proprio così? Di sicuro esiste una distorsione, la citata liquidità. Però il futuro del biglietto verde appare ancora a tinte fosche. La pensano così gli analisti di Citigroup: «Il dollaro è già sceso ma crediamo che esiste spazio per altri indebolimenti». Nessuna sorpresa: le bolle, si sa, sono tale perché i prezzi si espandono ben oltre il loro fair value. Fino a dove non è dato sapere.

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