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MERCATI: CHISSENE IMPORTA DI DUBAI E DELLA GRECIA

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(WSI) – Gli Stati Uniti e la Cina, con grande dispendio di mezzi, stanno cercando di trainare il mondo verso la ripresa. Dubai e la Grecia stanno cercando di risospingerlo verso la notte. In questa lotta, a guardare i mercati, Dubai e la Grecia sembrano al momento prevalere. Possibile? Il mondo deve proprio dipendere dal pagamento della cedola di un sukuk (di cui il 99 per cento dei gestori europei o americani ignorava fino a un mese fa la stessa esistenza) o dall’esito della prossima asta dei bond della Helleniki Democratia?

Con tutto il rispetto, non riusciamo a vedere elementi nuovi e dirompenti in queste due crisi. Dubai è uno stato palazzinaro colpito dalla crisi come tutti i costruttori indebitati. La sua esposizione verso i creditori, ricostruita in questi giorni, non risulta essere fatale per nessuno. La posizione delle banche inglesi, in particolare, risulta sostenibile.

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Quanto alla Grecia, la sua crisi più che esplosiva è irritante. La Grecia ha sempre sfruttato spudoratamente l’amore dei tedeschi per il suo mare e la sua storia. E’ stata fatta entrare nell’euro con un trattamento di favore. Se ne è sempre infischiata delle regole di Maastricht e ha avuto solo richiami bonari, quando all’est europeo non si perdona mai nulla. Ha sfruttato la sua importanza geopolitica e ha saputo farsi risarcire per il flirt che l’Europa ha con gli ottomani dai tempi di Francesco I di Valois e con i post-ottomani di Erdogan al giorno d’oggi. Quei turchi che hanno distrutto l’impero bizantino, schiacciato la Grecia per secoli e occupato di recente mezza Cipro con un’armata di contadini anatolici straccioni.

La Grecia è irritante perché finora non ha fatto nulla per rimettere a posto i suoi conti (si è scoperto addirittura che li ha imbrogliati). L’Irlanda ha appena varato un pacchetto molto duro, la Spagna sta facendo qualcosa, l’Italia è molto attenta a non lasciarsi andare. La Grecia niente. Il suo disavanzo pubblico è altissimo.

In più, annota sconcertato il Financial Times, la Grecia sembra in preda all’anarchia, con i manifestanti che prendono a sassate i banchieri d’affari inglesi in piazza della Costituzione ad Atene. Che scandalo. Come se la Grecia non avesse da decenni un’estrema sinistra particolarmente aggressiva e primitiva. Niente di nuovo, ci sembra.

Niente di nuovo nemmeno sul rapporto tra debito e Pil, che oscilla da molti anni tra il 110 e il 120 per cento. Un livello alto, non c’è dubbio, ma non una scoperta dell’ultima ora. La Grecia del resto ha attraversato il 2008 e il 2009 senza una crisi bancaria o immobiliare devastante (come Irlanda, Spagna e Regno Unito) nè aveva fatto in precedenza particolari follie come l’Islanda.
Il debito greco, benché alto, è uno dei più gestibili. La sua vita residua ponderata è di 7.8 anni, una delle più alte tra i paesi Ocse. Metà dei suoi titoli non scadranno prima di cinque anni. Nei prossimi 12 mesi sarà da rinnovare solo il 12.3 per cento del debito complessivo. Le banche greche lo sottoscrivono senza problemi, anche perché poi lo portano immediatamente alla Banca Centrale Europea che glielo sconta.

Il problema, in realtà, nasce qui. La Bce usa i soldi dei contribuenti europei e si imbarazza a comprare titoli di qualità troppo bassa. Adesso c’è la crisi e si accetta quasi tutto, ma dal 2011 si vorrebbe tornare alla normalità.

Se il rating greco dovesse essere abbassato, la Bce, se vuole rispettare le regole che si è data, dovrebbe smettere di scontarlo. Sia chiaro, la Bce sta tenendo in vita anche parecchie casse spagnole e banche tedesche esposte verso l’est europeo, ma il patto implicito è che all’aiuto deve corrispondere uno sforzo di ricapitalizzazione e di risoluzione dei problemi.

In febbraio, quando infuriava una vera tempesta globale e non la bufera in un bicchier d’acqua di adesso, la Germania arrivò a non escludere un salvataggio europeo, attraverso strutture dell’Unione o un consorzio di stati volonterosi, per i paesi in crisi. Così dicendo, il ministro delle finanze tedesco di allora dichiarava violabile il tabù più sacro dell’Europa finanziaria, il divieto assoluto di salvare singoli stati.

Se in questi giorni i toni sono diversi e si invita la Grecia con modi bruschi a darsi una mossa è perché, in fondo, ce lo si può permettere. E’ un segno di forza, non di debolezza. E’ un segno di forza perché non si temono effetti domino o contagi. I mercati ovviamente in queste ore stanno andando a cercare anche i titoli sovrani della Papuasia o delle terre antartiche per punirli del fatto di essere nella stessa categoria (vagamente emergente) della Grecia, ma non è un vero contagio.

I toni bruschi sono dovuti anche a un altro fatto positivo, la consapevolezza che la Grecia ce la può fare benissimo se solo si decide, per una volta, a fare qualcosa. C’è un’infinità di porte aperte a cui può bussare. Porte europee, prima di tutto, ma se ai politici greci dovesse servire lo spauracchio dell’Uomo Nero per fare passare misure impopolari c’è pronto il Fondo Monetario, nel quale l’Europa ha ancora una grande influenza.

Anche se non consigliamo l’acquisto di titoli greci (rischio per rischio almeno l’Ucraina rende molto, la Grecia no) siamo convinti che la questione sia gestibile e avviabile a soluzione in tempi ragionevoli. Perché allora i mercati sono così preoccupati?

Il motivo, a nostro avviso, è che la vicenda greca viene amplificata dalla debolezza dell’euro, che rafforzando il dollaro deprime le materie prime, che a loro volta fanno scendere i titoli petroliferi, minerari e industriali in generale e alla fine penalizzano gli indici. Qui non c’entrano nulla la paura del double dip, i timori per le vendite di Natale o qualsiasi altro fatto economico. C’è al limite una certa stanchezza nel rialzo, lo smontaggio di posizioni a leva (che non sono certo grandi come paventano i teorici delle bolle ma che comunque esistono in qualche misura) e una grande paura di perdere di nuovo soldi. Le motivazioni macro, per contro, sono tirate per i capelli, pure e deboli razionalizzazioni.

E’ però giustificata questa debolezza dell’euro che ha messo in moto la reazione a catena? Perché la crisi fiscale della California non ha pesato sul dollaro e la crisi fiscale greca pesa sull’euro? Non è forse l’economia californiana, con i suoi quasi due trilioni di Pil, più di cinque volte più grande di quella greca (343 miliardi)?

Si possono dare tre risposte, tutte giuste, ma solo la terza è quella che probabilmente spiega davvero. La prima è che il debito della California è di 60 miliardi, quello greco di 380. In America è l’Unione ad avere il grosso dei debiti, in Europa il secondo grande tabù vieta all’Unione di assumere debiti e tutto ricade sugli stati.

La seconda risposta è che in America l’Unione ha spesso salvato gli stati, per cui i timori di insolvenza e i rischi di contagio sono ridotti. L’Europa, ancora prigioniera dei suoi gelidi principi, non è ancora stata testata e questo accresce l’incertezza. La terza risposta è più che altro un’ipotesi e non c’entra niente con la Grecia. L’ipotesi che avanziamo è quella dell’analogia tra questo dicembre 2009 e la primavera del 2005.

Facciamo un passo indietro. Lo schema di uscita dalla crisi globale, nella crisi precedente come in questa appena terminata, prevede una divisione del lavoro per cui l’America reflaziona svalutando e spendendo, l’Asia producendo e accumulando dollari appena stampati mentre all’Europa spetta il compito di rivalutare. Quest’anno, rispetto al 2003-2004, gli squilibri del processo di reflazione sono attenuati (l’America si indebita di meno con il mondo e l’Asia accumula meno dollari) ma lo schema è il medesimo.

A un certo punto del processo di rivalutazione dell’euro l’Europa si sente però soffocare. Le sue imprese non possono contare sulla crescita della domanda interna e le esportazioni vengono colpite dal cambio troppo forte. L’Europa chiede allora una tregua agli Stati Uniti e ai mercati. Questa richiesta risulta più convincente se è accompagnata da qualche elemento specifico in grado di mettere in dubbio la sopravvivenza stessa dell’euro o addirittura dell’Unione.

All’inizio del 2005, dopo due anni di rivalutazione ininterrotta dell’euro, alcuni paesi dell’Europa mediterranea cominciano a mostrare serie difficoltà. La Germania esportatrice regge meglio, ma a fatica. Sui mercati che già ricamano sulla fuoruscita dall’euro di questo e di quello arriva il dato politico dirompente del no danese, via referendum, alla costituzione europea, replicato in giugno dalla Francia. La discesa dell’euro dura cinque mesi e lo riporta indietro, da 1.36, fino a 1.17 (ovviamente tra cori di “parità, parità” che non verrà peraltro mai più raggiunta). In quei cinque mesi l’Europa prende fiato, delocalizza e sfrutta al meglio la forte ripresa globale. A quel punto l’euro è pronto a seguire di nuovo il suo destino e si rafforza senza interruzione nei due anni e mezzo successivi.

Anche oggi abbiamo qua e là segnali di soffocamento da euro forte e ora abbiamo il tema di Grecia e Spagna per confezionare la teoria di un’Europa che non solo non ce la fa più economicamente, ma nemmeno riuscirà a tenersi insieme politicamente. Non è vero, ma fa comodo che qualcuno ci creda. E’ solo un’ipotesi e non abbiamo nessun elemento per dire che la pausa nel rialzo dell’euro sia già iniziata (o non sia piuttosto tra un anno) né che dovrà per forza avere la durata e l’ampiezza notevole che ebbe nel 2005.

Diciamo solo che nei cicli lunghi le pause sono fisiologiche, a un certo punto arrivano ed è quindi giusto esservi preparati. Questo ragionamento ci induce a essere in questo momento più tranquilli sulle borse che sull’euro.

L’espansione globale è infatti condannata a proseguire, costi quel che costi, mentre i cambi possono essere oggetto di aggiustamenti e manipolazioni. Fra qualche giorno ci saremo dimenticati di Dubai e della Grecia e torneremo ad occuparci di Stati Uniti, di Asia e di grandi temi globali. Si può approfittare dei malumori di questi giorni per comprare petrolio e titoli del settore nonché i ciclici e i finanziari più svenduti.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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