*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – MercoledÌ scorso dati sull’inflazione americana superiori alle previsioni hanno fatto temere ulteriori rialzi dei tassi statunitensi e spinto al ribasso le borse; ieri il calo del superindice economico e dati peggiori delle aspettative riguardanti il mercato del lavoro statunitense hanno alimentato di nuovo la speranza che la Federal Reserve non stringerà ulteriormente i cordoni monetari e ridato fiato ai mercati azionari.
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Queste reazioni dei mercati confermano che è finita la lunga onda rialzista dei listini azionari, iniziata nel marzo del 2003. La conclusione di questo periodo “felice” dei mercati finanziari coincide con la fine della politica monetaria espansiva seguita dalle principali banche centrali del mondo per evitare che il crollo delle borse dell’inizio di questo decennio sfociasse in una pericolosa deflazione.
Quindi, non vi è più ragione di mettere a disposizione liquidità a basso costo, poiché queste politiche hanno prodotto i risulati sperati anche nei paesi, come Europa e Giappone, che hanno avuto maggiori difficoltà ad agganciarsi al treno della crescita. Dunque, apparentemente si tratta semplicemente di ritornare ad una situazione di normalità. Ed è quanto pensa la maggioranza degli operatori, secondo cui il nervosismo attuale è “figlio” dell’incertezza sulla forza della crescita dell’economia statunitense e sui suoi pericoli inflazionistici.
In buona sostanza, i sostenitori di questa tesi ritengono che stiamo assistendo alle abituali incertezze caratteristiche di un tradizionale ciclo di espansione economica, durante il quale cominciano a manifestarsi aspettative inflazionistiche che la banca centrale è chiamata a debellare. Per questi motivi i mercati azionari reagiscono con grande nervosismo alla pubblicazione di dati sulla forza dell’economia e sull’evoluzione dei prezzi negli Stati Uniti che rafforzano le previsioni di un ulteriore aumento del costo del denaro da parte della Federal Reserve. In quest’ottica, alcuni prevedono un rallentamento dell’economia a stelle e strisce ed una fase di ribasso dei listini azionari, che potrebbe durare alcuni mesi. Poi la Federal Reserve dovrà abbassare nuovamente i tassi e quindi l’economia ricomincerà a crescere a ritmo sostenuto e ripartirà pure il rally delle borse.
Troppo bello e troppo semplice per essere vero. E infatti vi è più di un motivo per dubitare di questa previsione. Innanzitutto non si può escludere che la corsa dei mercati possa continuare ancora, poiché le politiche monetarie sono ancora fortemente espansive. Il punto centrale è però un altro: è difficile ipotizzare che l’uscita da un periodo di politica monetaria fortemente espansiva, come quella degli ultimi anni, non sia alquanto problematico. Infatti la crisi determinata dal crollo delle borse dell’inizio del decennio è stata superata inondando i mercati di liquidità a basso costo e quindi creando nuove e pericolose bolle.
Le più evidenti sono l’eccesso dei prezzi del mercato immobiliare negli Stati Uniti e in molti paesi europei, il forte aumento dell’indebitamento delle famiglie, il pericoloso deterioramento dei conti con l’estero degli Stati Uniti e l’esplosione dei prezzi delle materie prime. Ciò vuol dire che il processo di adeguamento delle economie e dei mercati ad una minore disponibilità di liquidità a basso costo è destinato ad essere meno lineare e più traumatico di una semplice correzione dei listini azionari.
E’ ad esempio significativo che questa fase di turbolenza dei mercati finanziari ha preso avvio con la caduta del valore del dollaro, che all’inizio non ha turbato più di tanto i mercati azionari. E’ altrettanto significativo che i timori inflazionistici, evocati da più parti, continuino a non essere presi in grande considerazione dai mercati dei capitali e soprattutto da quello statunitense, dove la curva dei tassi è sostanzialmente piatta. E’ pure significativo che il presunto aumento dell’avversione al rischio non si sia tradotto in significative correzioni delle borse dei mercati emergenti né in un significativo allargamento del differenziale dei tassi sul loro debito.
In realtà, l’attuale nervosismo dei mercati finanziari è sicuramente il segno della fine di un periodo felice, in cui tutto (dai corsi delle azioni ai prezzi delle materie prime) saliva. E’ pure il segno che i mercati finanziari stanno per la prima volta prendendo atto della fine dell’era del denaro facile e che oggi individuano i pericoli maggiori nella resurrezione dell’inflazione e nell’aumento del costo del denaro. Ma è proprio su questi timori che si cela molta compiacenza e soprattutto un errore potenziale. Infatti, visti gli squilibri esistenti nell’economia è molto probabile che il rialzo del costo del denaro e l’aumento della volatilità dei mercati portino ad un improvviso scoppio delle bolle che si sono formate in questi ultimi anni, per cui (come accadde nel 2000 quando all’improvviso e nel giro di pochi mesi la situazione dell’economia e dei mercati cambiò radicalmente) si ritornerà a parlare e a temere lo spettro della deflazione.
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