Nonostante un sentiment volto al pessimismo sul settore media almeno per tutta la prima metà dell’anno (con particolare riferimento alle società televisive), sembra farsi luce da qualche tempo la convinzione che non sia del tutto errato scommettere su Mediaset, in quanto meno esposto alla crescente volatilità del comparto e con una migliore capacità di rendere trasparenti le reali prospettive di crescita.
All’apparenza, il bilancio diffuso la scorsa settimana sembrerebbe sostenere questa visione. Ma, alla prova dei fatti, l’idea appare alquanto fragile e la scommessa quindi ancora molto rischiosa.
Mediaset, come maggiore operatore di televisone commerciale in Italia (con più del 42% di audience e più del 63% di pubblicità), non risentirà, è vero, di effetti specifici dei media tradizionali (come l’atteso rincaro dei costi della carta) e sicuramente presenta una esposizione non estrema sulle dot.com (situazione tipica invece in America): ma non si capisce bene come il management pensi di poter garantire gli stessi risultati in termini di performance del 2000 pur in un contesto di rallentamento della raccolta pubblicitaria (con le previsioni della società che restano comunque tra le più aggressive sul mercato). E non potranno certo bastare solo gli introiti per la campagna elettorale o per l’introduzione dell’euro a invertire un trend in rallentamento.
Del resto, se tale convinzione fosse davvero radicata, non si capisce come mai si sia cercato in qualche modo di “deprimere” il valore stesso del bilancio dello scorso anno (specie nel quarto trimestre), se non ci fosse stato il rischio reale di un gap troppo evidente di performance 2000-2001. Infatti, la spesa per la produzione delle soap opera (23 miliardi di lire) è stata attribuita, ad esempio, al 2000, invece di essere inserita tra gli ammortamenti e la witholding tax per 15 miliardi di lire è stata considerata un costo del 2000 invece che (come dovrebbe essere) un credito di imposta.
E se la società a partire dal 2001 ha fatto meglio dei concorrenti europei, questo sembra più un demerito delle altre società che non un brillante risultato operativo di Mediaset. Certo i consumi televisivi in Italia sono aumentati già nel 2000 sia in termini di utenti (+4,5%) che di tempo medio (+2,7%) e Mediaset ha registrato una buona crescita della share audience sin dal primo trimestre del 2000; ed è sempre vero che Publitalia (società che cura la raccolta pubblicitaria del gruppo) ha riportato risultati ben superiori al maggior concorrente (la Sipra della RAI), con un numero di clienti attivi in crescita. Ma la società dovrà confrontarsi con il problema della crescente saturazione dei volumi e, soprattutto, con un risultato positivo in termini di raccolta pubblicitaria sempre più imputabile a un aumento dei prezzi più che della massa in sé.
Inoltre, a contribuire al buon andamento del 2000, sono intervenuti eventi straordinari che difficilmente si ripeteranno, dal minor onere fiscale (agevolazione che non sarà possibile quest’anno) alla vendita maggiore rispetto alle anticipazioni dei diritti per la Champions League. Mentre diventeranno sempre più gravosi gli effetti di alcune scelte operative, come quella di aumentare sempre più la produzione interna rispetto all’investimento in diritti: in un contesto di costi operativi in rialzo e con sempre maggior impatto sui margini, la variabile diventa strategica per le possibilità concrete di rallentamento della crescita.
Del resto è pur vero che gli investimenti in diritti di programmazione sono aumentati e questi, sommati alla quota destinata alle infrastrutture per le trasmissioni della tv digitale terrestre, hanno impattato negativamente la generazione del cash flow. Un programma di ammortamento non sempre al passo ha dato un ulteriore spinta alla compressione del risultato.
La gestione complessa di questa realtà è resa ancor più difficoltosa dal fatto che è instabile una variabile chiave: il management. La sequenza di continui cambi al vertice ha reso sempre più il comitato esecutivo “ostaggio” dei rappresentanti della Fininvest, con ovvie conseguenze in termini di conflitto di interessi e limiti all’operatività. E i riflessi potrebbero vedersi a breve con le stesse decisioni inerenti il portale Jumpy (controllato dalla Fininvest), il cui avvicinamento (a qualunque titolo) a Mediaset potrebbe tradursi più in una ripartizione di oneri che in un’opportunità di collaborazione per la sussidiaria.
E poi, la cronaca recente ce lo ricorda, c’è il capitolo della partecipazione acquisita nelle società di telefonia (a fronte del mancato incremento promesso dal 40% al 45% in Tele5): anche se non si sa di preciso quanto e in quali (i sospetti vertono su uno o più titoli della filiera Colaninno). Una sola cosa è certa: dato il periodo in cui sono state rilevate le partecipazioni (seconda parte del 2000) il valore dell’investimento si è ridimensionato di 10 miliardi di lire (risultato ben diverso dalla plusvalenza che Fininvest riuscì a generare sulle stesse società).
Nonostante si parli di sostegno nell’acquisizione di partner fedeli, come Kirch e il mogul dei media Rupert Murdoch, difficilmente si può per ora andare oltre l’ipotesi di investimento finanziario (la filiera vale più di €164 milioni).
Ma Mediaset ha parlato di una scelta strategica per cogliere le opportunità legate all’approvazione delle norme sulla tv digitale terrestre e per sfruttare la convergenza tra tv, internet e tlc (dato che le altre due partecipazioni nella telefonia – Blu e Albacom – si ridurranno, l’una per dismissione e l’altra per la quotazione sul mercato).
Tuttavia, è riconosciuto che Mediaset abbia la pecca della strategia Internet meno sviluppata tra i competitor europei e secondo molti il passo è tardivo per cogliere le opportunità di creare valore per gli azionisti attraverso le sinergie di marchio, contenuto e potere promozionale in ambiente online.
Con un core business atteso in rallentamento dai valori del 14-15% del 2000 e con una crescita per gennaio della raccolta pubblicitaria inferiore alla media di mercato (+6,1% contro +7,5%), il titolo forse ha poche giustificazioni per il suo ancora persistente premio sui competitor europei; che anzi dovrebbe essere un segnale che la “svalutazione” non è ancora conclusa. Del resto, se anche colossi come l’americana Aol-Time Warner sono in difficoltà, perché gli investitori dovrebbero essere disposti a pagare un prezzo che in rapporto ai multipli la pone ancora in zona rischio, senza che questo corrisponda a una reale sovraperformance in termini di crescita e redditività?
*Donatella Principe è responsabile della ricerca economica presso il centro studi del Gruppo Banca Popolare di Vicenza.