Società

Marchionne, un modello per il paese (cio’ in cui Berlusconi ha fallito)

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(WSI) – “Siamo convinti che il modo di operare in Italia vada rinnovato – ha detto Sergio Marchionne a Detroit – In questo sono colpevole: stiamo cercando di aggiornarlo e renderlo competitivo”. E pensare che i suoi detrattori sostenevano che l’ad del Lingotto sapesse “soltanto” fare le automobili, sottintendendo che per le visioni generali bisogna rivolgersi a Luca Cordero di Montezemolo. Se con questo intendono sottolineare l’approccio pragmatico e non ideologico di Marchionne ai problemi industriali, compreso quello delle relazioni sindacali, in realtà gli fanno un complimento.

E dicono pure il vero: “In qualsiasi società civile quando la maggioranza esprime un’opinione anche con il 51 per cento, la minoranza ha perso – ha sostenuto infatti Marchionne – Io ho perso tantissime volte e non ho reclamato. Se venerdì vince il sì’, il discorso è chiuso, non possiamo votare 50 mila volte”.

L’ad di Fiat vuole fare automobili anche in Italia e venderle in tutto il mondo, un mondo che conosce appunto “praticamente”, senza lo snobismo cosmopolita della dinastia Agnelli. Marchionne pensa che l’epoca della manifattura in occidente non sia conclusa, ma che per poter competere con i paesi emergenti bisogna mettere a frutto la maggiore professionalità trasformandola in produttività. Questa è una scelta che nasce dalle condizioni materiali del mercato e che proprio per questo ha conseguenze generali e dirompenti su equilibri antichi e fossilizzati.

Marchionne è un rivoluzionario, non un ideologo della rivoluzione. Pure Henry Ford d’altronde voleva fare e vendere molte automobili, e per realizzare quell’obiettivo pragmatico ha rivoluzionato sia il modo di produzione sia le gerarchie sociali. Le sue idee personali erano disgustose, colme di antisemitismo, ma di questo nessuno si ricorda, perché al contrario delle sue idee politiche l’azione pratica di Ford è stata innovativa e socialmente avanzata.

Marchionne non si ferma alla denuncia ripetuta del “declino” italiano, ma cerca con coerenza di radunare le condizioni che permettano di realizzare un’industria automobilistica competitiva in occidente e quindi anche in Italia. E’ nel confronto con le esigenze pratiche che si realizza la critica più penetrante di un sistema di relazioni industriali, ma anche di rapporti tra pubblico e privato, che sono diventati una camicia di Nesso che imprigiona le potenzialità innovative del paese.

Paradossalmente il discorso di Marchionne contiene in primo luogo una visione realistica e quindi assai rispettosa della classe operaia, della quale Antonio Gramsci sosteneva il primato in forza della sua “funzione storica e pratica”. Credere alla funzione centrale della manifattura in occidente significa negare l’emarginazione storica dei produttori manuali; appellarsi al loro consenso all’innovazione come base per la trasformazione delle relazioni industriali è un omaggio alla loro intelligenza pratica.

Paradossalmente, mentre gli operaisti che lo contrastano vedono solo una classe operaia del passato e insistono per restaurare le condizioni che l’hanno condotta all’irrilevanza, Marchionne pensa a un operaio inserito nella globalizzazione, cioè nel presente, e capace di farsi valere nelle nuove condizioni reali. Mettere al centro la soluzione di un problema pratico e partire da lì per mettere il sistema di fronte all’evidenza della sua arretratezza è un modo concreto e dirompente per produrre innovazione. La via opposta, quella della costruzione dall’alto di riforme di sistema pro innovazione, si è scontrata con l’effetto paralizzante dei veti incrociati e in Italia ha prodotto finora solo chiacchiere.

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