Agroalimentare, abbigliamento, arredo e automazione sono le quattro ‘a’ da tutelare, così come tutta l’industria manifatturiera italiana, che rappresenta uno dei pilastri dell’ economia europea. E lo si deve fare in dieci mosse, muovendosi su due piani, interno e internazionale. Obiettivo: utilizzare al meglio le grandi risorse imprenditoriali italiani per affrontare e vincere la sfida della globalizzazione che, almeno per il momento, è riuscita a bloccare l’Azienda Italia, sulla quale pesano sempre più il boom economico della Cina ed il supereuro, che ne hanno minato la competitività.
Questi, in sintesi, i punti chiave del documento che sarà la base di partenza della seconda conferenza nazionale sul commercio con l’estero, alla quale parteciperanno, tra gli altri, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, i ministri degli Esteri e delle Attività produttive, Gianfranco Fini e Antonio Marzano, il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, e il presidente dell’Ice, Beniamino Quintieri.
A tredici anni dalla prima edizione dell’incontro – era il febbraio del 1992 quando si tenne il primo appuntamento (non esisteva ancora la Wto e l’euro era ancora molto lontano) – per l’Azienda Italia molte cose sono cambiate: prima fra tutte l’arrivo della moneta unica, ma anche l’accelerazione del processo di globalizzazione e il boom economico cinese. Il documento individua “nello straordinario aggravamento del passivo bilaterale con la Cina, nel deficit con Germania e Paesi Opec” i “tre poderosi mutamenti dello scenario che da soli hanno bruciato 31 miliardi di euro”.
In particolare, dal 1996 al 2004 “é come se l’Italia avesse effettuato per otto anni consecutivi una mini-finanziaria di oltre 2,8 miliardi di euro a favore della Germania e della Cina”, ed avesse contribuito con un’altra “mini finanziaria da oltre un miliardo di euro a favore dei Paesi Opec”. Il documento parte dall’assunto che la perdita di competitività dell’Italia non è “tanto riconducibile al sistema delle imprese quanto al sistema Paese, che “appare piccolo e debole nello scacchiere geopolitico mondiale”.
Difficoltà, quelle dell’Azienda Italia, che vanno affrontate con una politica su due piani: al di là dei confini nazionali é necessario persuadere Bruxelles dell’importanza del made in Italy, mentre in casa bisogna fare gioco di squadra abbattendo le barriere materiali e non, che frenano la competitività, e favorire la crescita dimensionale delle imprese e il rilancio della ricerca. Imprese che scontano sulla loro pelle la “concorrenza asimmetrica della Cina” e le conseguenze del loro nanismo nonostante il successo riscosso con i distretti industriali.
“L’Italia – afferma il documento – presenta un numero esiguo di grandi gruppi, il che riduce le nostre possibilità di contrattazione nei riguardi della grande distribuzione mondiale, limita la nostra presenza nei settori ad alta tecnologia e riduce ai minimi termini le possibilità di spesa privata in ricerca e sviluppo”. L’impasse in cui si trova attualmente l’Italia, confermata dagli ultimi dati Istat sull’andamento della bilancia commerciale nel 2004 tornata in rosso (-393 milioni di euro) per la prima volta proprio dal 1992, può essere superata spingendo sulla lotta alla contraffazione e sullo snellimento burocratico-amministrativo.
La ricetta per salvare il Made in Italy si basa su dieci “rapide ed efficaci” azioni: 1 – Fare pressing sulla Commissione europea per la rapida adozione del marchio d’origine sui prodotti importati nell’Ue; 2 – Immediato ricorso alle procedure antidumping europee nel caso in cui a seguito della concorrenza asimmetrica asiatica ricorrano condizioni di grave pregiudizio per il sistema industriale italiano e degli altri Stati membri; 3 – Intensificazione delle azioni di lotta alla contraffazione,introducendo sanzioni economiche a carico di chi acquista prodotti contraffatti; 4 – Supporto allo sviluppo tecnologico di distretti e consorzi per l’export mediante accordi con università e centri di ricerca e formazione di nuovi manager per l’internazionalizzazione;
5 – Eliminazione dell’Irap a carico non solo dei ricercatori ma anche di chi lavora nella fase innovativa; 6 – Riduzione delle tasse sulle pratiche di registrazione e rinnovo dei brevetti; 7 – Creazione delle condizioni di contesto più favorevoli per stimolare l’innovazione nei settori a più alto contenuto tecnologico in cui l’Italia eccelle; 8 – Azioni diplomatiche presso i Paesi emergenti per stimolarli ad accettare più elevati standard sociali ed ambientali dei loro prodotti; 9 – Sviluppo di una politica fiscale che favorisca l’aggregazione di imprese; 10 – Rilancio della spesa pubblica in ricerca e sviluppo, anche nella prospettiva di una revisione del Patto europeo di Stabilità e Crescita.