Multata, più pesantemente di quanto s’immaginasse, Microsoft ricorrerà in appello, e non è detto che il Tribunale di prima istanza non possa rovesciare – com’è del resto già accaduto – il verdetto di Mario Monti. Ma questo rimpallo tra Commissione e corti di giustizia non segnala soltanto la fragilità di un antitrust, quello europeo, che deve ancora costruirsi una solida base giurisprudenziale – fatta di casi e ricorsi, del trial and error del diritto insomma. Racconta soprattutto lo iato che separa la teoria della concorrenza fatta propria dall’antitrust, e la realtà dei mercati: poco inclini a farsi incasellare in schemi precostituiti, ad appiattirsi sui modelli in tinta unita di certa teoria economica.
«Non si risolve nulla assumendo che tutti sappiano tutto», scriveva il Premio Nobel Friedrich von Hayek. Si finisce per azzardare una descrizione delle economie, del loro funzionamento, dei loro vizi e delle loro virtù che ha poco da spartire col vissuto della “concorrenza reale”.
«È difficile», per Hayek, «difendere gli economisti dall’accusa di avere discusso della concorrenza, per circa quaranta-cinquanta anni, partendo da presupposti che, se fossero veri per il mondo reale, la renderebbero completamente priva d’interesse e inutile. Se tutti fossimo a conoscenza di ciò che la teoria economica chiama i dati, la concorrenza sarebbe veramente un metodo molto rovinoso». Viceversa, «quali beni siano scarsi, o quali cose siano dei beni, quanto siano scarsi o che valore abbiano, sono esattamente queste le cose che la concorrenza deve scoprire». La concorrenza è dunque un «procedimento per scoprire fatti che, senza di essa, nessuno conoscerebbe o almeno nessuno utilizzerebbe».
C’è una certa hybris nella pretesa dell’antitrust di prevedere il futuro di un mercato. Anche perché non sempre le Cassandre vedono giusto. La stessa storia di Microsoft ne offre alcuni esempi. Negli Stati Uniti, è stata sott’inchiesta per accuse non diverse da quelle avanzate dal Commissario Monti: al centro, il nodo del “bundling” di altro software all’interno del suo sistema operativo. Il problema sorto prima con “Microsoft Network”, e poi con “Internet Explorer”, s’è sbrogliato da solo. “Explorer”, sul quale divampò quell’episodio felicemente ribattezzato «la guerra dei browser», non ha portato in dote un monopolio inespugnabile alla softwarehouse di Seattle. Piuttosto, ha scalzato “Netscape”, che era sì in posizione dominante, ampliando il raggio d’offerte a disposizione dei consumatori, ma non è detta la parola “fine”.
“Microsoft Network”, a sua volta (incluso già in Windows 95), non è riuscito affatto a detronizzare il gigante Aol. Ma se, prima del lancio di Msn, la messaggeria di America On Line costava 54 dollari d’abbonamento per venti ore di chat al mese, oggi gli stessi servizi sono a disposizione gratis, sul web. La concorrenza, anche se c’è di mezzo un’impresa mastodontica come Microsoft, funziona così.
Lo dimostrano, paradossalmente, le stesse azioni per cui Bill Gates è finito nell’occhio del mirino: il tentativo di migliorare il proprio prodotto, spalancando all’utente nuovi orizzonti, regalandogli nuove, insperate meraviglie. La Microsoft ha una lunga storia di primati. Anche in tempi più recenti, lasciando perdere il passato più remoto e pionieristico, è stata la prima a regalarci un Word Processor che riconoscesse il mouse, un Word Process che funzionasse con le tabelle, un’enciclopedia multimediale, una suite d’applicazioni per ufficio integrate, per giunta a costo inferiore rispetto ai singoli programmi.
Si dice che questi suoi successi siano diventate “barriere all’entrata”, spianate contro nuovi competitor che faticano a farsi strada. Non solo si dimentica troppo spesso che senza Gates e i suoi oggi non ci sarebbe un mercato sufficiente ampio per questi ultimi: lo “standard” Dos prima, e Windows poi, ha fatto lievitare il numero di pc in circolazione. Ma si tende a non ricordare, soprattutto, che certe “barriere” non sono in realtà che la giusta ricompensa per chi è riuscito per primo a “scoprire” opportunità di profitto.
La concorrenza non è una quantità: tanti produttori per lo stesso bene. E’ un “processo”: è quel metodo attraverso il quale gli imprenditori “intuiscono” i bisogni dei consumatori, e provano a soddisfarli. Molto spesso, sorgono delle “posizioni dominanti” soltanto perché il “monopolista” è colui che ha inventato quel particolare mercato. E’ stato il primo a comprendere che in quella nicchia si celava un’opportunità, a investirci tempo ed energie, a scommetterci se stesso, quando altri nemmeno consideravano il problema.
Ribaltare il tavolo, derubarlo di quel patrimonio di vantaggi, significa mettere in crisi quella fragile impalcatura d’incentivi su cui si reggono innovazione e progresso. Purtroppo, le regolamentazioni antitrust spesso fanno proprio questo. E in nome del mito della concorrenza, a perdere sono i consumatori.
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