(WSI) – Tornata la quiete sul mercato dei cambi, si può ragionare più serenamente sul cambio del dollaro e i suoi effetti, riconoscendo due semplici verità.
La prima verità: le oscillazioni del dollaro alle quali stiamo assistendo non sono anomale nell’esperienza dei cambi flessibili dai primi Anni Settanta. In effetti, l’indice del valore effettivo reale del dollaro delle ultime settimane è di poco al di sotto della media degli ultimi trent’anni. A metà degli Anni Ottanta e di nuovo a metà degli Anni Novanta esso era sceso molto più in basso, circa un altro venti per cento rispetto ai livelli attuali, senza che crollasse la casa.
Come già nelle due precedenti fasi di debolezza, la discesa del dollaro non è dipesa dal disavanzo della bilancia dei pagamenti, variabile poco significativa quando la moneta costituisce la valuta di riserva del resto del mondo. Essa, invece, è stata determinata dalle politiche monetarie e fiscali espansive degli Stati Uniti dell’anno elettorale. Quando l’amministrazione avvierà l’inevitabile correzione del disavanzo pubblico, il dollaro risalirà. Nel medio termine, il valore del cambio reale tra le grandi aree economiche si muove in linea con l’andamento relativo della domanda interna e della produttività; dunque, nei confronti dell’euro il dollaro è destinato ad apprezzarsi significativamente. I tempi e le condizioni della correzione sono incerti, ma non la tendenza.
La seconda verità: come ci ha insegnato Robert Mundell, le oscillazioni del dollaro non possono, da sole, correggere gli squilibri nei saldi correnti della bilancia dei pagamenti tra le grandi aree economiche; ma mettono in moto stimoli poderosi di aggiustamento non solo dei flussi commerciali, ma anche delle politiche economiche interne.
La Cina acquista dollari per non rivalutare il suo renminbi, ma l’accumulo di riserve spinge la crescita monetaria e l’inflazione. Alla fine, se non vuol perdere il controllo della domanda interna e dell’inflazione, essa dovrà rassegnarsi a lasciar salire il cambio.
In Europa, il cambio elevato dell’euro comprime le esportazioni, ma spinge le imprese a investire in tecnologia, a rafforzare l’efficienza, ad accrescere la dimensione. Migliorando le ragioni di scambio, esso riduce il costo delle importazioni e stimola il potere d’acquisto delle famiglie. In un’area che soffre da due decenni di sistematica deficienza di domanda interna, i redditi e i profitti migliorano maggiormente nelle componenti interne del prodotto, in particolare i servizi, attirando verso di essi gli investimenti.
I servizi sono il comparto dove l’Europa è rimasta più indietro nella produttività rispetto agli Stati Uniti; il cambio forte crea le condizioni per rimediare. Per sfruttare tale benefico effetto, occorre rimuovere le barriere che impediscono l’afflusso del capitale e del lavoro e la concorrenza nel comparto dei servizi. Invece di preoccuparsi troppo del dollaro, i governi europei farebbero bene a concentrarsi su questo obiettivo. Avrebbero presto più crescita, produttività e occupazione.
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