(WSI) – Ma siamo proprio sicuri che se vince George Bush alle elezioni quel che ci aspetta non è nient’altro che la riproposizione tal quale «della potenza della spada unilaterale» cui persino Eugenio Scalfari domenica scorsa è sembrato arrendersi come a un male inevitabile?
E che dietro lo scontro tra la diplomazia americana e quella francese intorno all’ipotesi di Conferenza internazionale sulla stabilizzazione irachena non vi sia che la riproposizione dello scontro frontale teorizzato da chi è convinto che l’Occidente si divida nettamente ormai irrevocabilmente in due, da una parte quello consapevole di sé a costo di usare solo la spada e dall’altra quello stanco e dimentico che preferisce cacciar la testa sotto la sabbia?
A poco più di un mese dalle elezioni americane, in apparenza il confronto dovrebbe ispirarsi al principio del tutto bianco o tutto nero. In realtà, leggendo con attenzione le voci che si levano sia in campo liberal che conservatore, si scopre che la politica estera e di difesa americana in caso di vittoria di Bush sta gettando già oggi nuove fondamenta su cui costruire. Non è detto siano bipartisan, ma nell’uno e nell’altro campo il realismo guadagna terreno, e il neowilsonismo jacksoniano ne perde. Segnando la parabola di Donald Rumsfeld e di molti del suo “inner circe”.
Solo ieri, bastava aprire la pagina dei commenti del liberal Washington Post per trovarvi un aguzzo editoriale firmato da David Ignatius. Una tesi totalmente controcorrente, la sua, rispetto alle accuse che a Bush lancia John F. Kerry nel tentativo di riagguantarlo nei sondaggi in vista del primo dibattito televisivo. Ma è proprio vero che i terroristi stiano vincendo, per effetto degli errori della politica dell’amministrazione, si chiede Ignatius. E la sua risposta è no.
Sposando in pieno le tesi dell’arabista francese Gilles Kepel, Ignatius sottolinea che l’estendersi dell’insorgenza irachena non significa affatto che il jihadismo stia guadagnando consensi nel mondo a cui è più diretto il suo maggior sforzo, cioè quello musulmano. Kepel ha senza dubbio il difetto di aver sostenuto tesi analoghe anche prima dell’11 settembre, quel che conta per capire il mood americano è che un columnist come Ignatius separi nettamente il giudizio sulla carenza di strategia quanto a “nation building” iracheno, rispetto alla considerazione degli effetti negativi che la atrocità dell’insorgenza – autobomba e kamikaze, rapimenti e sgozzamenti – stanno determinando in queste settimane nei paesi e nei governi musulmani. Senza contare le difficoltà che esse inevitabilmente creano alle comunità musulmane presenti nei paesi occidentali.
Allo stesso modo, in campo conservatore solo in Europa ci si continua ad accanire sulla presunta continuità dell’eredità neocon con una ostinazione degna di miglior causa. A tornare in auge è il realismo kissingeriano, la tradizionale corrente repubblicana secondo la quale è meglio nascondere la spada dietro un sorriso e agire in modo diverso in contesti geopolitica diversi. Se per esempio consultate gli ultimi contributi ed editoriali sul portale dell’American Enterprise, roccaforte del pensiero conservatore mai contaminata dall’isolazionismo alla Pat Buchanan che piace tanto agli scholar del Cato Insititute, ecco che negli ultimi giorni vi imbattete in opinioni come quella di Gaulam Adhikari, visiting fellow all’American.
Rifiuta energicamente ogni fatuo e dissacrante accostamento tra Iraqi Freedom e il Vietnam, ma accetta senza troppi problemi l’invito di un antibushiano doc come Zbgniew Brzezinski a tornare a considerare il mondo come uno scacchiere multipolare.
L’iperpotenza americana non è in discussione, dicono all’American Enterprise, con un’economia che traina il mondo coi suoi 11 mila miliardi di dollari di Pil e un bilancio militare che da solo eccede quello dei maggiori 25 paesi del pianeta, ma la lezione di questi anni è che «il potere è indispensabile, le sue forme si devono adattare». Il vincolo con la Russia di Putin e il sostegno alla transizione democratica del mondo islamico detteranno agende diverse, e in entrambe bisognerà riprendere contatti con un’Europa i cui dubbi e debolezze sarebbe per l’America insensato regalare in toto all’Eliseo di Chirac.
Il realismo post rumsfeldiano non diverrà centrale solo nell’agenda militare e diplomatica, di un Bush confermato alla Casa Bianca. Non c’è da aspettarsi certo che l’Amministrazione abbracci teorie esattamente divergenti rispetto a quelle sin qui seguite, tipo il “soft power” alla Joseph Nye della Kennedy School of Government che fa impazzire da sempre i liberal americani e gli antiamericani europei. Ma anche in campo economico e finanziario alla «guerra senza quartiere contro gli interessi franco tedeschi», predicata in libri al fulmicotone come Treachery – «tradimento!», e l’accusa è ovviamente rivolta a Chirac e Schroeder – del columnist del Washington Times Bill Gertz (la cui verve e competenza in materia militare è leggendaria, ma certo la diplomazia non è il suo campo) oggi in campo conservatore si sostituiscono analisi assai più ponderate.
Date un occhio al punto di vista eterodosso sul Sudan di Roger Bate e Benjamin Schwab, due altri studiosi orbitanti intorno all’American Enterprise. Più che un intervento armato in Sudan e Darfur, sarebbe stato meglio in passato, e sarà meglio in futuro, che le imprese e i finanziamenti americani non lascino il campo ai cinesi come è invece avvenuto negli anni alle nostre spalle. Il dollaro, talvolta, può più e meglio delle truppe speciali.
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