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MA CHI FINANZIA LA RICETTA ANTI-DECLINO?

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(WSI) – In un recente articolo sulla Repubblica Amato e De Benedetti offrono un prospettiva nuova al dibattito sul declino dell’Italia e sul come affrontarlo. Nuova in due sensi. In primo luogo perché è proiettata in avanti, sulle opportunità che ci sono piuttosto che, unicamente, sugli errori compiuti in passato. In secondo luogo, perché grazie alla proiezione in avanti offrono un po’ più ottimismo di quanto, fino ad ora, non si sia letto in giro. Anche per questi aspetti il contributo di Amato e De Benedetti rappresenta, in qualche misura, l’altra faccia del dibattito, iniziato da Giavazzi e continuato da altri, sulle preferenze del sistema industriale italiano per i mercati protetti piuttosto che per la concorrenza.

Tradotta in termini semplici l’idea di Amato e De Benedetti è che la via che l’Italia deve seguire per uscire dal declino è di reindirizzare risorse verso settori nuovi e in particolare verso i servizi in alcuni dei quali (come il turismo, ma non solo) gode di importanti vantaggi comparati, in gran parte ancora da sfruttare. Sono diverse le ragioni per cui una simile strategia è condivisibile.

In primo luogo perché l’esperienza (compresa quella italiana del dopoguerra) insegna che i periodi di forte crescita di un paese si sono (quasi) sempre accompagnati a trasformazioni profonde dei modelli di specializzazione. Le imprese hanno abbandonato prodotti obsoleti e a bassa crescita della domanda per specializzarsi in prodotti nuovi a alta crescita della domanda.

In secondo luogo perché oggi tali settori nuovi si concentrano nel comparto dei servizi. E’ la espansione di questi settori che spiega molti dei vantaggi di produttività e crescita degli Stati Uniti (e anche del Regno Unito) rispetto all’Europa dell’euro. In terzo luogo perché un rapporto stretto ed efficente tra servizi avanzati e industria facilita l’innovazione tecnologica e la sua diffusione e quindi stimola ulteriore crescita. In quarto luogo perché molti settori dei servizi producono input per gli altri settori, compresi quelli manifatturieri e quindi una elevata produttività dei primi favorisce la competitività dell’intero sistema. In conclusione, la strada indicata ad Amato e De Benedetti va nella direzione giusta. Il problema, naturalmente, è come percorrerla.

Torniamo allora ai punti sollevati da Giavazzi che alla luce di queste considerazioni possono sembrare paradossali. Egli ci ricorda come le imprese italiane preferiscano investire in settori protetti, tra cui molti servizi, dove le rendite di posizione sono elevate, piuttosto che nei settori esposti alla concorrenza internazionale. Il paradosso, appunto, sta nel fatto che le imprese italiane investono poco e quando investono, sopratutto negli ultimi anni, lo fanno in settori che sarebbe necessario sviluppare ma la cui espansione è frenata dalla protezione di cui godono. E ciò, inoltre, comporta un danno per l’intero sistema in quanto accresce i costi degli inputs per le altre imprese.

Altri hanno fatto notare che le imprese investono poco e sfuggono alla concorrenza non (solo) perché timorosi di affrontarla ma perché assai poco sostenuti dal settore finanziario (che pure appartiene ai servizi) anch’esso ancora in gran parte protetto. Cosa sarebbe necessario allora per seguire la strada indicata da Amato e De Benedetti? Per fare in modo cioè che l’investimento nei servizi sia intensificato?

Sicuramente occorre liberalizzare e diminuire il peso della regolamentazione. Il punto è se ciò, oltre a essere necessario, è anche sufficiente. L’evidenza empirica dice che la liberalizzazione e la regolamentazione dei servizi ne aumenta la produttività e che, inoltre, tale aumento di produttività si trasmette ai settori manifatturieri che usano i servizi come inputs.

Ma l’evidenza dice anche che la perdita di occupazione (che spiega buona parte dell’aumento della produttività) almeno inizialmente può essere non irrilevante. Ciò che occorre è ottenere un risultato «americano», una crescita simultanea della produttività e dell’occupazione. E per questo occorrono (almeno) altri due ingredienti, un sistema finanziario in grado di sostenere l’innovazione e disponibilità di capitale umano (molti servizi sono ad alta intensità di conoscenza).

Se le due ulteriori condizioni fossero soddisfatte (e se hanno ragione Amato e De Benedetti) i profitti attesi dall’investimento in settori dinamici e con meno barriere all’ingresso (e non più le rendite) dovrebbero attirare imprese che non hanno paura della concorrenza. Ci potrebbero essere costi, temporanei, in termini di occupazione. Ma un efficiente sistema di ammortizzatori sociali, se ci fosse, potrebbe renderli affrontabili.

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