Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Si potrebbe reagire come Martina Stella e dire
addio perché «troppo diversi sono i nostri stili di vita
». O si potrebbe reagire come i moralisti contro i
quali si scaglia ex ante il leader radicale Daniele Capezzone.
O si potrebbe reagire come la Borsa dove
il titolo Fiat ha avuto un sussulto in volumi e valori
alla notizia del ricovero di Lapo Elkann in «coma
farmacologico», intossicato da una overdose di cocaina
mescolata con altre sostanze. Giù, su, ancora
giù (alla fine ha perso l’1%).
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Gli operatori, seguendo
il loro innato cinismo, hanno cominciato a vendere
quando è arrivata da Wall Street una mazzata
che potrebbe mettere a sconquasso la
borsa americana e quelle mondiali, oltre che
l’intero settore automobilistico. General
Motors è a serio rischio, potrebbe perfino finire,
horribile dictu, in amministrazione controllata
facendo ricorso al Chapter 11. Sul
colosso di Detroit si abbatte il fallimento di
Delphi, il suo principale fornitore di componenti
(conseguenza di uno spin-off del 1999).
Poiché deve garantire le pensioni anche
ai dipendenti di Delphi, Gm si
trova sul groppone 11 miliardi di
dollari. Che si aggiungono alla crisi
dovuta ai costi sanitari e alla
erosione di liquidità dovuta alla
fiacca del mercato. Dwight
Eisenhower diceva: «Quel che
fa bene a Gm fa bene all’America
». E Gianni Agnelli lo aveva
tradotto in italiano: «Quel che fa bene alla Fiat
fa bene all’Italia». I tempi sono cambiati di
qua e di là dall’Atlantico. Gm non è più la blue
chip di Wall Street, ma resta la più grande impresa
americana. Lo stesso vale per Fiat.
Il Lingotto è sul punto di
uscire dal tunnel. La Grande
Punto nasce con i crismi del successo
e gli ordinativi vanno a gonfie
vele. Sergio Marchionne ha
fatto un buon lavoro e gode della
fiducia dei mercati internazionali.
In più, molte nubi si sono diradate
sull’assetto proprietario. Gli
Agnelli, non senza una indubbia
astuzia di mercato, restano al comando
dopo che le otto banche
hanno convertito in azioni il prestito
di 3 miliardi. I due anziani
reggenti, Franzo Grande Stevens
e Gianluigi Gabetti, stanno dando
il meglio e il “traghettatore”
Luca di Montezemolo rema con
veemenza. La catena di successione
è assicurata da John Jacob
Elkann (Jaki).A lustrare il blasone
appannato c’è l’intera plancia
di comando, nella quale ha il suo
ruolo (iper)attivo il giovane Lapo.
È il cadetto. Ma tutti dicono
che è quello che più assomiglia al
nonno, l’Avvocato, nel cui mito
vive. Fino al vezzo di un abbigliamento
flamboyant, totalmente
diverso dallo stile piemontese del
fratello che ricorda,semmai,i Caracciolo
(la figura, il volto, la statura,
il lessico familiare, la voce).
Se le style est l’homme méme, come
diceva il philosophe Buffon (Georges-Louis Leclerc,
conte di),ci sono non solo due personalità,ma
due mondi rispecchiati nei fratelli.E la tragedia personale
di un giovane che rischia di morire per una
notte brava, sia pure nella borghese Torino e non in
Costa Azzurra patria della débauche, separa, allontana
quei due universi. Tom Wolfe, un autore che
l’Avvocato apprezzava quasi come Truman Capote,
ci ha raccontato che per diventare Master of the universe
non bastasse solo un gran superego, pelo sullo
stomaco, astuzia nel manipolare il risiko finanziario,
ma anche un bel po’ di polverina
bianca. I ruggenti anni ’80, però, sono
lontani e la fabbrica non è una sala
cambi. Senza contare i doveri dinastici.
Stefan Quandt è lo scapolo d’oro
della Germania, lascia gestire la
Bmw dai manager, nessuno (finora) lo
ha visto in giro con una soubrette.Sua sorella
Susanne ha sposato addirittura un
impiegato, senza rivelargli la sua vera identità
fino al giorno delle nozze. L’eredità
degli Agnelli è senza dubbio più
complessa, un vero rompicapo per
chiunque. Una responsabilità da
spezzare la fibra più robusta. E forse
il giovane Lapo ne è rimasto inebriato.
Ci auguriamo che non ne sia
travolto,per lui innanzitutto,ma anche
per lo stemma che ha con tanta
energia contribuito a far riprendere.
Sulla Fiat si è abbattuta una catena di tragici
eventi umani (il suicidio di Edoardo, la morte prematura
di Giovannino, la scomparsa nel giro di un
anno di Gianni e di Umberto) e di congiunture
drammatiche. Il capitalismo familiare mescola per
sua natura il destino individuale e
quello collettivo.Gli Agnelli si sono
rivelati di forte tempra, e la
Fiat ha sfidato più volte gli uccelli
del malaugurio. Il pericolo che
corre, adesso, viene più dall’esterno
che dall’interno. È l’avversa
congiuntura dell’auto. Quella che
sta colpendo Gm. E mette a rischio
anche Volkswagen,al punto
tale da dover cercare un cavaliere
bianco se non un salvatore. Il
panzer tedesco,primo gruppo automobilistico
europeo, è in affanno.
E al vertice è in corso un conflitto
durissimo che vede l’un
contro l’altro l’azionista pubblico,
i sindacati, il vecchio management.
L’alternativa è se mettersi
in mano alla famiglia Porsche o
alla DaimlerChrysler. Potrà superare
la prossima tempesta un
produttore generalista ormai
piccolo su scala mondiale, come
Fiat, e una proprietà familiare
che, sia pur con encomiabile orgoglio,
vuol contare solo sulle
sue forze? È quel che tutti si
stanno chiedendo. Per primi i cinici
agenti di borsa che hanno
cominciato a comprare azioni,
nell’eterna attesa che anche a
Torino arrivi un cavaliere bianco
e la giostra ricominci.
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