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Lotta aperta tra finanza e democrazia: non si può più andare avanti così

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Roma – Negli ultimi giorni, e in particolare con la seduta di Borsa di ieri, il moderno sistema finanziario ha dato il peggio di sé. Per comprendere bene quest’insuccesso occorre ricordare un antefatto troppo spesso trascurato: la finanza globale è fortemente squilibrata dall’abbondante creazione di liquidità degli Stati Uniti, a fronte della quale manca una vera ripresa dell’economia americana. Il presidente Obama, con una difficile campagna elettorale in corso, ha demagogicamente assolto il proprio paese e la propria amministrazione da ogni colpa per la situazione economica, addossando all’Europa tutta la responsabilità della crisi.

In questo clima assai teso, è giunta la settimana scorsa un’incredibile presa di posizione del Fondo Monetario Internazionale l’istituzione di vertice del sistema finanziario globale.

Uno studio ufficiale reso pubblico venerdì, con l’apparente scopo di dare consigli (venati di un fastidioso senso di superiorità) si schiera nettamente dalla parte dei pessimisti sul futuro dell’euro, qualcuno direbbe dei suoi nemici. Secondo il Fondo, il mercato finanziario europeo è sempre più frammentato, le banche acquistano sempre più titoli del debito pubblico del loro paese, la crisi dell’euro «ha raggiunto nuovi livelli di criticità».

I mercati leggono in particolare quest’espressione come l’annuncio del decesso imminente, vero e proprio incitamento a disfarsi della moneta europea, che, infatti, subisce un ulteriore calo, e dei titoli europei, soprattutto quelli bancari, le cui quotazioni accumulano perdite su perdite. Da Bruxelles, non giunge alcuna reazione, forse perché siamo ormai nel week-end; silenzio anche da Berlino e Parigi. La sola Banca Centrale Europea, troppo timida negli ultimi tempi, ribadisce sabato, per bocca del governatore Draghi, che l’euro non è in liquidazione e che anzi costituisce un blocco di economie complessivamente assai solido. Nessuno però, apparentemente, prepara difese mentre altrove si prepara l’attacco.

Arriviamo così alla giornata di ieri, con le Borse che cadono fortemente mentre si impenna il famigerato «spread», ossia la differenza di rendimento tra i titoli a lungo termine di un Paese e gli analoghi titoli tedeschi, considerato il termometro della salute delle finanze pubbliche dei vari Paesi.

I meccanismi di difesa, recentemente approvati ai vertici europei, avrebbero dovuto entrare immediatamente in azione ma sono intrappolati nel lungo processo delle approvazioni parlamentari. Nessuno imbraccia il decantato «scudo» europeo, si dichiara che, per l’intervento, occorre una richiesta ufficiale di aiuto del paese minacciato.

Il governo spagnolo, i cui titoli sono al centro della caduta, esita ad avanzare questa richiesta nel timore di peggiorare la situazione. La situazione viene invece peggiorata dalla notizia, poi rivelatasi prematura, forse gonfiata ad arte e forse falsa, dell’interruzione degli aiuti del Fondo Monetario alla Grecia. Non è la prima volta che si verificano episodi del genere.

Passano così all’incirca quattro ore, nelle quali la Borsa italiana ha tempo di perdere il 4 per cento, prima che si cominci a fare la cosa più ragionevole, ossia vietare le vendite allo scoperto che rendono troppo facile il gioco al massacro sui titoli pubblici spagnoli, del quale risentono pesantemente anche i titoli pubblici italiani.

Alla fine, questa semplice misura, unita a qualche «buona parola» a sostegno dell’Europa, fa sì che la caduta si corregga e che una metà del terreno perduto venga recuperato, anche se lo spread italiano rimane a livelli troppo elevati per poter offrire un senso di sicurezza.

Non è possibile continuare così, con ondate speculative basate sul nulla che devastano le economie di mezzo continente mentre le ben maggiori debolezze finanziarie e reali dell’economia americana non vengono poste sotto vera osservazione. I Paesi europei dovrebbero ricordarsi che non sono impotenti di fronte a mercati, nei quali, tra l’altro, i comportamenti fraudolenti non sono certo infrequenti e non vengono perseguiti con molto entusiasmo. E invece, a ogni ondata speculativa, tutti si ritrovano con le mani in mano senza saper bene che cosa fare e senza un vero coordinamento operativo.

A prescindere dalle misure tecniche per smorzare le punte speculative dei mercati, gli europei avrebbero naturalmente molte altre carte da giocare ma tutte queste implicherebbero penalizzazioni e limitazioni alla finanza internazionale che i Paesi debitori non si sentono di approvare nel timore che la stessa finanza non acquisti più i nuovi titoli dei debiti pubblici quando quelli vecchi arrivano alla scadenza.

Tale scontro può anche essere inteso come un duello tra finanza e democrazia in quanto nella valutazione del debito pubblico di un paese, la finanza utilizza sempre più parametri politici, ossia la propria valutazione, o meglio il proprio gradimento per determinati politici o per determinate politiche. Le democrazie hanno il dovere di pagare i debiti ma anche il diritto alla non interferenza dei creditori nei loro affari.

Quest’incertezza non può durare a lungo: lo scontro tra la finanza e gli Stati difficilmente potrà essere rinviato indefinitamente, e questo per la pressione dell’opinione pubblica, sempre meno propensa ad accettare decisioni che implicano sacrifici di anni e che poi sostengono i titoli in Borsa al massimo per qualche giorno. Occorrono però strategie coordinate di intervento se si vuole evitare che tutto ciò ci precipiti nel caos.

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