Tremonti e Fazio sono ai ferri corti in un contesto vizioso, tipico della recente storia italiana. Dal 1992 in avanti si sa in questo paese che l’eclissi della politica e l’illusione che i “tecnici” possano sostituirla alimenta una spirale in cui il potere giudiziario finisce per far polpette di logica, ragioni e torti. Ne discendono alcune conseguenze valide anche per districarsi nel ginepraio del caso Cirio bonds, e per trovare una soluzione al braccio di ferro che oppone da mesi il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia.
Le due posizioni sono ormai note. Tremonti è persuaso che le 11 banche primarie, che hanno piazzato i 7 prestiti obbligazionari Cirio andati in default a 35 mila risparmiatori per 1.125 milioni di euro, abbiano agito sapendo che il gruppo Cirio era a un passo dal fallimento. Il loro scopo, secondo lui, era rientrare dai crediti che gli avevano concesso ignorando i più elementari obblighi di informativa sul prodotto che vendevano ai risparmiatori.
La vigilanza della Banca d’Italia avrebbe coperto le banche sia quando concedevano denari a un gruppo dai conti opachi e zoppi sia, successivamente, accollando l’onere ai propri clienti la cui unica colpa era di fidarsi dei consigli ricevuti allo sportello. La Banca d’Italia nega recisamente, e dice che se responsabilità vi furono sono delle singole banche, e comunque la politica non c’entra perché ad accertarle saranno le indagini della magistratura.
Sei procure nel frattempo hanno aperto fascicoli. A Monza l’impressione è che si stringa il cerchio soprattutto su Intesa, San Paolo e Fideuram per passare poi a Capitalia, oltre che su eventuali responsabilità della Consob. A Roma, la sensazione è invece che i magistrati seguano una strada diversa, quella di mettere sotto accusa Sergio Cragnotti e gli ex amministratori della Cirio, lasciando le banche fuori. Intanto anche il tentativo di salvataggio del gruppo Cirio è andato avanti, ai tre commissari giudiziali che decidono del futuro del gruppo disastrato (e con diciottomila dipendenti) sono stati conferiti i poteri di commissari straordinari secondo la legge Prodi.
Ed ecco che a questo punto la lezione della decennale deriva giudiziaria italiana rischia di tornare di bruciante attualità. I commissari potrebbero da un’ora all’altra essere costretti, per non incorrere in sanzioni, a chiedere alle banche la revocatoria, il rientro di tutti i crediti concessi fino a cinque anni prima del crac, nel caso in cui fossero convinti che gli istituti abbiano agito sapendo che soci e creditori Cirio stavano andando incontro al disastro.
Al contempo, uno qualunque dei Tribunali civili italiani in cui sono pendenti le richieste dei sottoscrittori di obbligazioni andate in fumo (o di analoghi titoli bancari come nello scandalo MyWay del gruppo Montepaschi, il caso Cirio non è l’unico) potrebbe deliberare l’immediata restituzione da parte delle banche dei denari raccolti. In entrambi i casi, gli effetti sarebbero quelli di un’onda di marea, uno scossone ulteriore alla credibilità e stabilità dell’intero sistema. Con il fondato rischio che il giudice x decida una cosa per il tal caso, e il giudice y l’opposto.
Ed è proprio per evitare questo caos che Tremonti pensa che c’era e c’è la necessità di un intervento della politica. In un paese in cui il sistema bancario è decisivo, rispetto ad altri investitori istituzionali, nel determinare il controllo proprietario e l’andamento stesso delle imprese, da Mediobanca al caso Fiat, non si può pensare che a una crisi di credibilità del credito il governo assista a braccia conserte.
L’errore però c’è stato, anche da parte di Tremonti. Quello di rendere la vicenda solo un capitolo di un più ampio scontro sulle fondazioni bancarie, su Basilea2, sulla riforma delle autorità e dei poteri di Bankitalia, tutto mischiato in un solo polverone. Condito magari dal fastidio di vedere organizzarsi intorno a Capitalia un equilibrio finanziario-imprenditoriale che il governo avverte come politicamente “alieno”.
E’ anche per questo che Antonio Fazio ha iniziato a cercare con successo sponde interne alla maggioranza, da tempo visibili in An e nell’Udc. Una prassi impropria per la Banca d’Italia, che così finisce a sua volta in evidente fuorigioco. Per uscirne bene ed evitare il caos giudiziario, la politica deve allora riaffermare i propri diritti, ma agire con ordine e rispetto dei diversi ruoli. E sta a essa avanzare una proposta chiara che chiami le banche a negoziare coi sottoscrittori dei bond il loro riacquisto a un congruo valore, in cambio della revoca delle azioni giudiziarie e fermando i commissari dalla revocatoria altrimenti inevitabile.
Non c’è bisogno di litigare tra riflettori e tapiri in un comitato interministeriale, per far questo. E’ un classico esempio di intervento straordinario che governo e governatore concertano riservatamente. E se le banche dicessero di no, il governo avrebbe a quel punto tutte le ragioni e gli strumenti fiscali per convincerle che, a non ripristinare la fiducia dei risparmiatori, si paga un prezzo più pesante che a ricomprarsi i bond. I conflitti strategici e di potere sono una cosa, il risparmio un’altra.
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