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LIGRESTI E IL MURO DEL CORRIERE

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WSI Quando il muro di Berlino si è sbriciolato nei souvenir che i turisti comprano sulle bancarelle, ci eravamo illusi che i muri fossero finiti, e per sempre. Del resto non servono. Secoli fa, appena i cinesi hanno alzato la grande muraglia, sono stati travolti da invasioni senza pietà. Ecco perché il muro di Israele evoca nuovi dispiaceri. E il muro che invoca il Comitato di Redazione del Corriere della Sera fa capire come sia profondo il malessere dell’informazione italiana quasi alla deriva in uno spazio dove la trasparenza ogni giorno ingrigisce. Il Comitato lancia un appello a giornalisti, collaboratori, tipografi, lettori e ogni cittadino. Invita a «pretendere sia alzato un muro tra gli interessi di tutti gli azionisti e il giornale». Perché «è sotto gli occhi di tutti la partita di potere giocata attorno a via Solferino dalle più importanti forze economiche».

Si è formato «un complicato ventaglio di presenze che copre per intero il mosaico di interessi e personaggi di un Paese che, nelle ricomposizioni, si porta dietro le realtà più discusse». Muro come metafora di una «separazione formale tra i poteri economici e politici anche degli azionisti; necessità evidente affinché l’indipendenza del Corriere sia garantita in futuro».

La storia si ripete; filosofia P2 che si rinnova. Dietro le maschere più o meno gli stessi burattinai, amici, figli, neoconvertiti dai cotillon del carnevale belusconiano o soci in affari condannati senza appello in tribunale. Gli anni passano, ma le mani continuano ad allungarsi. La sconfitta brucia, soprattutto a Milano. Perdere le elezioni malgrado il monopolio, fa capire come le ombre Tv siano ormai veline noiose, imbonitrici di scarsa credibilità quando a fine mese mancano i soldi della spesa. E i giornali riprendono l’antica funzione dello spiegare cosa bolle attorno allo schermo: giochi di parole, gratta e vinci che premiano gli stessi biscazzieri. La carta stampata non tace, voce fastidiosa, da imbavagliare. La normalizzazione ricomincia dal piatto forte Corriere.

Non vorrei ricordare cos’era il Corriere prima che Milano diventasse da bere. Ma fra le righe dell’appello del Comitato trema la nostalgia di un giornale che alla vigilia di Natale chiudeva la porte per riunire Giulia Maria Crespi, Moratti, azionisti, redattori e operai in un brindisi con panettone, insomma quegli incontri che la borghesia lombarda rispettosa della tradizione era abituata a santificare alla vigilia delle feste. Buone maniere talmente fuori tempo da sentirsi in imbarazzo nel ricordarle.

Anche allora il buoncuore restava sullo sfondo, veleni e spine, ma le regole del Corriere di Piero Ottone avevano slegato la lealtà dell’informazione dando spazio a una trasparenza mille volte rivoltata, recuperata, riperduta e adesso minacciata come nell’evo P2. Non nella forma: nessuno lo ammetterà mai. Ma nella pratica che lentamente salderà vecchi conti in sospeso.
Tanto per fare un esempio: con quale animo Salvatore Ligresti, finalmente nel salotto di via Solferino, attraverserà il corridoio del primo piano per omaggiare il «suo» direttore, o scendere i tre gradini che portano alla presidenza correndo il rischio di stringere la mano a chi ha raccontato (agli stessi lettori di oggi) le sue imprese di 12 anni fa? Il pericolo nascosto nelle pieghe «più discusse» della nuova proprietà (pieghe che inquietano l’appello del Comitato) è proprio il confronto dell’ingegnere con quei testimoni in conflitto di disinteresse professionale, diventate bestie rare nella società che protegge ogni conflitto di interessi.

Padroni e appositi giornalisti contractors non perdonano chi fa solo il mestiere senza calcolare sponde politiche o piaggerie ben pagate. Stanno diventando ansiosi, l’ultima spiaggia si avvicina. Ricordiamoci la ferocia delle azioni punitive nella Salò in agonia. Altra repubblica, ma i nipotini sono tornati al governo.
Nei quattro passi del corridoio al primo piano, Ligresti potrà scambiare due parole con chi – luglio ‘92 – raccontava le sue disavventure con la precisione del cronista bene informato e il guizzo di chi non resiste a chiamarlo «don Salvatore» evocandone le radici siciliane.

Nato a Paternò «come l’avventuroso finanziere Michelangelo Virgillito, famoso speculatore di Borsa negli anni ‘60», l’ingegnere «è finito a San Vittore avendo pagato la stecca di un miliardo e rotti per i lavori della Grassetto nella metropolitana milanese. Ne dà la responsabilità ai precedenti amministratori della Grassetto, ma Di Pietro smonta la versione volando a New York e interrogando Giancarlo Grassetto: nel ’85 aveva venduto e si era autoesiliato. Non solo Grassetto smentisce don Salvatore, ma sostiene di aver subito, prima dell’interrogatorio, pressioni da parte dello staff del finanziare siciliano».

Consiglio di tacere, altrimenti… Quale sorriso scambierà l’ingegnere nuovo padrone, col cronista di ieri nel frattempo cresciuto in carriera? E cosa dirà al giornalista che aveva frugato fra le carte dell’interrogatorio di Carlo Maraffi «passato da direttore dell’ufficio tecnico erariale di Milano all’incarico ben più importante di direttore generale amministrativo al ministero delle finanze, favorendo subito la Preafin di Ligresti che ha venduto al ministero due palazzi per 77 miliardi»? Maraffi confessa di essere stato promosso perché «Ligresti si era rivolto a Craxi, chiedendogli il favore».

Come è diventato amico di famiglia di Craxi? è la curiosità di un altro giornalista-Corriere mentre le ombre dell’arresto si addensavano sull’ingegnere: «Avevo incontrato Paolo Pilitteri quando faceva ancora l’assessore in un comune vicino a Milano e non aveva ancora sposato Rosilde, sorella di Bettino. Attraverso di lui ho poi conosciuta tutta la famiglia e siamo rimasti molto amici». L’indiscrezione continua: «Del resto l’ingegnere è sempre stato attento a mantenere buoni rapporti con tutti, ma non è mai riuscito ad evitare che attorno al suo nome circolassero voci un po’ fosche.

Molti, quando ne parlano finiscono per nominare la mafia. Alcuni si sono spinti fino a Paternò per indagare. Per il resto la sua sarebbe una qualunque storia di successo se non ci fosse questa amicizia con la più potente famiglia politica milanese che distribuisce potenza agli amici cari: quella di Craxi, appunto E se non ci fosse il fatto che i soldi li ha messi assieme con le case, da sempre terreno minato…».

«Va in galera uno degli uomini più potenti di Milano», commenta un giornalista straordinario del quale si può fare nome e cognome perché dal Corriere se ne è andato tanto tempo fa: Giuseppe Turani spiega come «non risulti ancora che l’ingegnere abbia scritto al cardinale Martini per chiedere perdono. Quelli che hanno contatti con lui dicono che in carcere sta riflettendo e che ha apprezzato molto la “confessione” che Cesare Romiti ha reso alle autorità religiose di Milano». Ci sta pensando e intanto fa i conti. «Tre mesi in galera hanno sgonfiato le sue imprese di mille miliardi». Il Corriere è molto preciso su come vive Ligresti a San Vittore.

Appena arrestato protesta col maresciallo di turno: «Non vorrete mettermi in cella con qualcun altro? Desiderero stare da solo». Ma forse si è pentito di aver cercato la solitudine. Il suo compagno di cella («Un drogato», dice il suo avvocato, professor Ennio Amodio) si è mostrato subito gentile col nuovo, illustre compagno di sventura: «Ingegnere, posso rifarle il letto?». E Ligresti: «La ringrazio. L’ultima volta che l’ho rifatto ero militare. Sono passati molti anni. Non ne sono più capace». Il professor Amodio si arrabbia col Corriere: «Sbaglia chi scrive che il momento dell’arresto e l’interrogatorio in procura sono stati drammatici. Ho letto di discussioni accesissime tra Ligresti e Di Pietro.

Non c’è nulla di vero. E ora spero di non leggere un’altra inesattezza. Non dite che Ligresti “collabora”, é un termine che detesto. Il mio cliente si difende, rispondendo. Voi dividete gli arrestati fra quelli che non parlano e quelli che confessano. Schematismo riduttivo». Malgrado il bon ton sul giornalismo, i cronisti non mollano. Ligresti parla. E i suoi amministratori vengono autorizzati a rivelare la strategia con la quale si lega a Citarristi (amministratore Dc), soprattutto con Balzamo, amministratore Psi «per essere ammesso in un club ristretto degli imprenditori amici del partito socialista». Anche nel processo di Venezia, 9 febbraio ‘93, un altro giornalista raccoglie le stesse indicazioni dalla voce viva dell’ingegnere. È stato costretto «a cedere alle reiterate pressioni e richieste dell’allora segretario amministrativo del Psi, Balzamo». Il quale nel frattempo è morto e non può difendersi. Chi scrive mette due righe di commento. Suonano spietate mentre Ligresti oggi passeggia in Via Solferino.

Per quattro anni l’ingegnere resta protagonista di primo piano nelle cronache del grande foglio. Dall’«incubo americano», a proposito delle tangenti pagate per costruire un’autostrada che collega il Kentucky con l’Ohio, al collasso per il terzo ordine di cattura. Era uscito da San Vittore per farsi operare di prostata in una delle cliniche di cui è proprietario, la Città di Milano, e proprio mentre conta le ore che lo separano dal ritorno a casa, due carabinieri bussano alla porta della stanza piantonata: «Scusi ingegnere se disturbiamo», e gli allungano una busta gialla. L’ingegnere guarda la busta e capisce.

È un nuovo ordine di cattura. Si ricomincia da capo, Crolla. Si accascia sul cuscino mentre gli infermieri di spaventano: «Un collasso, accorrete». Mani Pulite picchia duro: 16 novembre ‘92. Ma il 26 torna a casa: Grande titolo del Corriere: «Ligresti ha confessato ed é libero». Ha messo in fila tutti i miliardi distribuiti senza nascondere «quasi niente» ed é stato riconosciuto «socialmente non pericoloso» dalla procura di Milano che accoglie la proposta del giudice Italo Ghitti. Ormai che ha voce nel grande giornale, don Salvatore può cominciare a sfogliare l’archivio con una buona azione: raccomandare la promozione del giornalista che aveva capito tutto il 14 aprile 1993.

«Uscito di carcere il costruttore ha trovato l’impero in gravissima crisi finanziaria. Cuccia, presidente Mediobanca, ha accettato di aiutarlo ma a un patto: dovrà rompere il salvadanaio e mettere nelle sue aziende 500 miliardi. Ligresti risponde alzando gli occhi al cielo e aprendo le cinque dita: cinque sta per cinquecento miliardi. Sospira «Mi hanno spiumato». Ma poi aggiunge: «Pazienza. Non sono il tipo di ritirarmi e vivere di rendita. Voglio rilanciare il gruppo…». Problema non da poco. Era abituato a costruire palazzi, interi quartieri, e venderli in blocco a enti pubblici. Ora cercherà di vendere direttamente agli inquilini. «Perché voglio vivere tranquillo…». Ma è difficile credergli. Adesso il suo buoncuore dovrebbe tener conto di chi ha saputo leggere il futuro. La fortuna va e viene e il Corriere non ha mai portato proprio fortuna agli editori che gli girano attorno. Nella vita non si sa mai.