Società

Aziende, le sette “sorellastre” del Web socialmente poco utili

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La notizia non è proprio dell’ultima ora. Sono infatti diversi anni che Apple in testa seguita da Google, Facebook, Amazon e altre aziende tecnologiche impiegano il loro enormi flussi di cassa liberi, prodotti dalle attività caratteristiche, investendoli in attività finanziarie. Chiariamoci subito: nulla di male in tutto questo, non voglio innescare polemiche ideologiche contro il ricco di turno solo perché fa soldi a palate. Il mio intento è quello di proporre alcune considerazioni sul significato di questo fenomeno per l’economia reale e per la società in generale.

Il giornalista che riporta la notizia fa giustamente un parallelo tra queste aziende e quelle del petrolio di qualche decennio fa. Ricorda infatti che

dominavano il mercato, producevano ingenti flussi di cassa che venivano destinati in buona parte agli investimenti per nuovi giacimenti e per il resto in lauti dividendi.

Quegli investimenti, oltre a creare maggiori opportunità di ricchezza per l’azienda che li faceva, creavano posti di lavoro, nuove aziende a supporto della catena del valore, crescita di quelle già esistenti nell’indotto, insomma spingevano ad uno sviluppo complessivo dell’economia.

Oggi anche i giganti del web hanno importanti investimenti produttivi, ma ben lontani dalle risorse chieste allo sviluppo dei grandi giacimenti petroliferi. Non solo ma ogni aggiornamento di prodotto e processo comporta investimenti marginali via via minori.

cita testualmente l’articolo. Cosa se ne fanno allora dei soldi in più? Li investono in attività finanziarie, non produttive. Tale attività non è negativa di per sé, ovviamente, ma fa sorgere quesiti su che contributo dia all’economia reale e alla società.
Quanti posti di lavoro crea un miliardo di acquisti in titoli di stato americani?

Quanti ne crea un miliardo investiti in azienda? La risposta è ovvia, ma allora quali sono le motivazioni profonde di questi comportamenti?

Di certo non quelle di mettere i soldi “sotto il materasso”, essendo tutte aziende quotate e sempre interessate ad aumentare il loro valore in borsa. La risposta più ovvia, dal punto di vista strategico, è un “deficit imprenditoriale”: non sanno che uso industriale farne!

Sembrerebbe un’affermazione contraddittoria considerando il successo che i prodotti e servizi di tali aziende sono riuscite a creare, eppure è così.

I mercati creati dal nulla, perché prima non esistevano, risultano essere, per quanto grandi, di nicchia e poco durevoli nel tempo. Non hanno bisogno di grandi investimenti per essere mantenuti e si spengono (si spegneranno) dopo qualche anno, al massimo un decennio. Ecco perché la fama di acquisizioni e investimenti in ricerca e sviluppo che però si scontrano con la limitatezza della visione dei loro stessi fondatori che, pur avendone i mezzi che le stesse loro capacità gli forniscono, non riescono a creare opportunità di investimento e crescita da altre parti.

L’unica che sembra al momento aver capito l’importanza della preponderanza dell’investimento industriale rispetto a quello finanziario sembra essere Amazon con la sua iper attività in qualsiasi settore dove vede opportunità di crescita.

Ma vi è un’altra considerazione strategica da fare, forse più importante. Come ricorda un’altro articolo del Sole 24 Ore, a proposito della preponderanza degli strumenti finanziari negli attivi di tali aziende Internet.

D’ora in poi non basterà più per i colossi della tecnologia valutare la bontà e la redditività dei loro prodotti e del loro business, ma andrà data un’occhiata anche al loro portafoglio finanziario. I centauri del Web possono trasformarsi da ghiotta opportunità a rischio zero, data la mole ingente di flussi di cassa che producono ogni anno, a un problema se i mercati finanziari dovessero incontrare una nuova crisi.

Che vuol dire che tali aziende sono passate dall’essere creatrici di nuovi mercati, con i loro prodotti e servizi innovativi, ad essere dipendenti dai vecchi mercati, quelli finanziari. Una sorte davvero ironica, oltre che triste, per chi ha “cambiato il mondo” che oggi, più banalmente e comodamente, ci si adegua.