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LE ROVINE (ECONOMICHE) DELL’IRAQ

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Dopo la liberazione di Baghdad, è cominciato l’inventario della situazione economica irachena, per preparare la ricostruzione, che non riguarda tanto i danni di guerra quanto quelli provocati direttamente dal regime di Saddam Hussein. Il quale, non dimentichiamolo, è riuscito a trasformare un paese potenzialmente prospero, in un paese povero e molto indebitato.

Stando alle prime stime, i debiti esteri del regime assommano ad almeno 300 miliardi di dollari. Ma il calcolo è incerto perché la finanza allegra del dittatore s’accompagnava a una contabilità caotica, in cui interessi privati e pubblici si mescolavano. E la lista dei creditori non è completa. Probabilmente una parte delle contropartite è occultata nei cosiddetti paradisi finanziari, ma gran parte si è dissolta.

I pozzi petroliferi sono salvi, i pochi incendi di quelli del Sud sono stati spenti, le mine lasciate dai miliziani vengono disinnescate. Ma lo stato di manutenzione è pessimo. Molte strutture sono state cannibalizzate per utilizzare alcuni pezzi di ricambio in altri impianti. Occorrono sei miliardi di dollari solo per i giacimenti del Sud, al fine di portarli alla loro piena capacità produttiva che è ingente: 380 milioni di barili annui. Non si sa ancora quanto potrà costare la manutenzione dei pozzi del Nord verso cui si avviano i curdi. Le opere pubbliche del regime si sono concretizzate nei tanti palazzi presidenziali costruiti tra Baghdad e Tikrit, città natale di Saddam, in pochissime autostrade e in alcuni aeroporti. Ma strade, acquedotti, fognature, scuole e ospedali sono scadenti e il conflitto non ha fatto molti danni aggiuntivi rispetto alle disastrate condizioni originarie. Sono necessari lavori per 20 miliardi di dollari annui per almeno cinque anni.

Il 60 per cento della popolazione ha vissuto con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite perché il regime aveva un’economia inefficiente, con molta burocrazia e alte spese militari. Il vero problema sarà far ripartire il mercato. Le risorse potenziali però ci sono, dal petrolio alle industrie connesse alle materie prime, fino a una terra potenzialmente doviziosa. E c’è soprattutto un capitale umano che, liberato dall’oppressione, resta di buon livello.

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