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LE CINQUE REGOLE D’ORO DELL’INVESTITORE ‘VALUE’

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(WSI) – Compra e tieni. Anche per anni. È la filosofia di base dell’investitore «value», che vanta illustri predecessori. Dal precursore Ben Graham negli anni ’30 fino a Warren Buffett. Ma in concreto come si agisce? Buffett ama ripetere di «non investire un dollaro se non si pensa di guadagnarne almeno un altro». Non solo: al value piacciono le fasi di Borsa discendente perché si compra a sconto. E ancora Buffett: «Le società è meglio se sono brutte e noiose». E con multipli contenuti: otto-nove volte gli utili, Roe elevato e possibilmente una capitalizzazione inferiore ai mezzi propri.

Insomma non devono essere di moda o promettere di far arricchire in fretta l’investitore. Meglio poi se sono trascurate da analisti e gestori e proprio per questo hanno multipli bassi. Almeno finché non vengono scoperte dagli operatori, e a quel punto l’investitore value è quasi pronto a vendere.

Quanti bilanci occorre osservare prima di acquistare i titoli? E per quanto conservarli? Alla prima domanda molti gestori value rispondono: «almeno tre-cinque anni», un lasso di tempo per valutare la forza del business, la capacità del management e la continuità dei risultati. Più difficile il timing, poiché non esiste un momento specifico in cui abbandonare l’investimento, se non le variazioni dei multipli.

PRICE/EARNING: il rapporto fra prezzo e utili è il primo indicatore che si consulta e quello di più facile lettura. In realtà preso a sé stante, il ratio significa poco. Occorre contestualizzarlo, confrontandolo ad esempio con Roe, utili attesi per gli esercizi successivi e flussi di cassa. Ancora meglio è utilizzare il cosiddetto trailing p/e, in cui l’utile (normalizzato, vale a dire quello delle attività correnti, escludendo pertanto le poste straordinarie) è quello degli ultimi quattro trimestri disponibili, in modo da avere un quadro sempre aggiornato della situazione. Un p/e costantemente inferiore alla redditività (espressa dal Roe) rappresenta già un primo segnale di una società di cui vale la pena approfondire l’analisi. Anche se in genere si tende a non comprare a oltre le 16-17 volte gli utili.


PRICE/FREE CASH FLOW: è un indicatore più efficace del p/e. La maggior parte delle immobilizzazioni materiali presenti nei bilanci, infatti, tende a perdere valore nel tempo. Le norme contabili fissano piani di deprezzamento specifici per i vari asset, ma nel mondo reale questi beni si deprezzano a ritmi diversi da quelli decisi dai principi contabili. Valutare le azioni sulla base dei flussi di cassa risulta quindi preferibile, visto che sono una misura delle entrate e uscite monetarie di una società. Per il calcolo del cash flow si parte dai profitti realizzati da una società, si aggiungono i deprezzamenti, gli ammortamenti e altri costi non monetari e, infine, per il calcolo del free cash flow, si procede poi con ulteriori aggiustamenti sottraendo, per esempio, gli investimenti in nuovi stabilimenti.

PRICE/BOOK VALUE: scovare società che capitalizzano meno del proprio patrimonio non è ora difficile. E anche questo indicatore può rappresentare un filtro per un investitore value. Prezzare una società meno dei mezzi propri significa non assegnarle alcuna redditività o prospettiva reddituale, ma se fa utili con continuità, ha un regolare dividendo, un indebitamento finanziario contenuto e conserva buone prospettive, il titolo ha buone possibilità di essere sottovalutato.

DEBITO/EBITDA: è il rapporto fra indebitamento finanziario netto e margine operativo lordo e segnala di quante volte il primo supera la capacità dell’azienda di generare reddito attraverso la gestione caratteristica: in pratica indica se e in quanti anni l’azienda è in grado di ripagare il debito con il Mol. Quanto più tale valore è elevato, tanto più si allontana nel tempo la capacità per l’azienda di ridurre i debiti. In genere un valore inferiore alle tre volte è preferibile, se superiore a cinque è meglio stare alla larga.

DIVIDEND YIELD E PAYOUT RATIO: il primo indica il rendimento del dividendo (rapporto fra cedola e prezzo in percentuale). Più è alto, più la cedola staccata è elevata rispetto al prezzo, ma non necessariamente questo è un bene. A volte può implicare una certa sottovalutazione del titolo, a volte l’indicatore è fallace (Telecom Italia, ad esempio, per anni ha erogato cedole generose, ma la discesa del titolo ha sempre affossato il rendimento complessivo). Un utile filtro aggiuntivo (i prezzi fluttuano ma la volatilità dei dividendi è senz’altro inferiore) è così rappresentato dal payout (rapporto fra monte dividendi e utile netto): valori contenuti – sotto il 50% – sono un viatico alla stabilità delle cedole anche in caso di discesa dei profitti.

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