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(WSI) –
È passato quasi un decennio da quando ho iniziato a scrivere queste pagine. Più esattamente correva l’anno 1997. Adesso, però – come ho anticipato ai lettori nel numero scorso – ho deciso di dedicarmi interamente alla casa d’investimenti che ho fondato nel 1999, la Thunderstorm Capital. Vorrei così dedicare queste ultime righe alle nove lezioni che ritengo di aver imparato nel corso di tutto questo tempo.
1) I titoli meno «gettonati» dagli analisti e dagli investitori nascondono spesso le opportunità migliori. Le performance dei portafogli «immaginari» elaborati in questi anni, hanno rafforzato la mia convinzione che una scelta orientata al «valore» costituisca sempre l’investimento più saggio. Ad esempio, il cosiddetto Robot Portfolio, un contenitore di titoli con rapporti prezzo/utili molto bassi, ha dato maggiore impulso al mio andare in «controtendenza» per comprare titoli poco popolari.
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Quel portafoglio conteneva 10 titoli di società statunitensi, con un valore di mercato superiore ai 500 milioni di dollari, un debito inferiore al patrimonio netto e un risultato di gestione positivo, a condizione che presentassero multipli bassi nel rapporto fra prezzo e utili. Nel corso degli anni, tale metodo ha fatto emergere buone opportunità d’investimento, prima nel settore energetico, poi nell’immobiliare e, più di recente, in quello siderurgico. Dal 1999 al 2006, un investimento nei titoli individuati avrebbe generato un rendimento pari all’830% (inclusi i dividendi, ma privo degli effetti legati agli oneri fiscali, alle commissioni e ai costi di transazione), a fronte del 31% fatto registrare nello stesso periodo dallo S&P 500.
2) Non lasciarsi influenzare dagli analisti di Wall Street. Ho analizzato dal 1998 al 2006 l’andamento annuale dei quattro titoli più apprezzati dagli analisti (con raccomandazione «buy» unanime per un largo numero di esperti) e contestualmente dei quattro meno amati (quelli con un’alta percentuale di «sell»). Ebbene, nell’arco dei nove anni, il gruppo dei preferiti ha perso il 3,7%, risultando battuto dallo stesso gruppo delle «pecore nere», che ha lasciato per strada solo lo 0,2% annuo. Inoltre, nessuno dei due ha fatto meglio dell’intero mercato.
3) Un alto «turnover» di portafoglio non necessariamente porta a buoni rendimenti. Il concetto è ben rappresentato dal Sane Portfolio, un’altra delle liste frutto delle mie «creazioni» annuali. Le sue regole hanno spesso permesso che alcuni titoli rimanessero nella lista per diversi anni, come nel caso di Occidental Petroleum, presente per quattro anni consecutivi. Per sette anni, dall’estate del 1999 allo scorso agosto 2006, il Sane Portfolio ha registrato un ritorno annuale (nuovamente senza considerare gli oneri fiscali, le commissioni e i costi di transazione) pari al 14%, vale a dire ben 13 punti percentuali migliore di quella dello S&P 500.
4) Il valore di un investimento è spesso slegato dal recente andamento di un titolo. Si prendano in considerazione la trimestrale Casualty List, contenente i titoli meno fortunati dell’ultimo periodo, ma che comunque sembravano attraenti, e la semestrale Value Plus Momentum List, comprensiva di quei titoli che sono saliti in contemporanea alle mie raccomandazioni. La Casualty list ha segnato dal luglio del 2000 un rendimento medio annuo del 30% (dividendi inclusi). Mentre la Value Plus Momentum List ha reso dal febbraio 2000, il 25% annuo. A ben vedere, due risultati di performance parecchio affini.
5) Immaginare di prevedere l’andamento del mercato con precisione è estremamente difficile, per non dire impossibile. Ho imparato a prendere con cautela ogni sorta di previsione di mercato, comprese ovviamente quelle del sottoscritto. Nel primo articolo dell’ottobre del 1997 ho pronosticato che la bolla del mercato sarebbe esplosa nel 1998, mentre effettivamente accadde soltanto a fine 2000. D’altra parte, ho correttamente ipotizzato la flessione dei listini nel 2004 e la buona performance del 2006. Ma quel che conta è che pochi esperti hanno fatto bene. E tra questi quasi nessuno ha saputo ottenere conferme con il passare degli anni.
6) I multipli elevati non sono sempre una buona ragione per mettersi short. Una vendita short è essenzialmente la scommessa di un prossimo declino del titolo. Le mie strategie su come selezionare i titoli da vendere short (in base a elevati rapporti prezzo/utili o a elevati book prices) si sono rivelate del tutto inadeguate. È andata meglio per titoli con valori di scambio superiori a 100 volte i ricavi, un multiplo che ho sempre ritenuto assurdo. Questi ultimi, tra il 2000 e il 2006, hanno ceduto il 35 per cento. Diversamente, in due dei sei anni presi in considerazione, i titoli che ho giudicato incredibilmente sopravvalutati hanno fatto bene. Vale a dire che se uno short seller mi avesse seguito, sarebbe incappato in una cattiva performance. Nel cercare buone opportunità di short sale, credo invece che sia importante scovare delle società sofferenti, con un cattivo business plan e con conti assai discutibili.
7) Profitti elevati, se presi singolarmente, non sono una buona ragione per investire.
Per sette anni, dall’agosto del 1998 a quello del 2005 (con una sola pausa nel 1999), ho pubblicato una lista delle quindici società che consideravo più profittevoli. Ho altresì sottolineato che l’appartenenza a questa lista non costituiva immediatamente un consiglio di acquisto. Meno male, perché la Fab15 ha sempre segnato un andamento in linea con quello di mercato. Dunque, nulla di speciale.
8) Il dialogo con i lettori è stata la parte migliore della mia esperienza. Mi mancheranno molto i pareri dei lettori, compresi quelli che accedevano ai miei articoli direttamente dalla piattaforma Bloomberg. Ho potuto apprezzare la loro abilità di proporre nuovi punti di vista. Un ringraziamento particolare, quindi, a tutti coloro che hanno trovato anche il tempo di scrivermi.
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