
Negli ultimi tempi numerosi analisti si sono interrogati sulla stabilità delle nuove vette raggiunte da Wall Street, ponendosi una domanda semplice, ma dalla risposta mai univoca: le azioni americane sono sopravvalutate? Secondo diverse opinioni, spesso ospitate su queste pagine, i principali indicatori-chiave confrontati su base storica, ci dicono che le azioni americane sono molto care. Tali metri di valutazione vanno dal price/earning ratio, al Cape, al price/book ratio.
A discostarsi dalla prospettiva secondo la quale i titoli azionari sarebbero sopravvalutati (e quindi vulnerabili a forti correzioni in virtù di tale squilibrio) è il professor Gary Smith (Pomona College); in un intervento su Marketwatch l’esperto ha indicato nei tassi d’interesse l’elemento mancante nelle analisi dei pessimisti, sostenendo che a conti fatti la valutazione delle azioni è corretta e se la si confronta su basi storiche rispetto al rendimento dei bond. “I tassi d’interesse colpiscono i prezzi delle azioni direttamente, a prescindere da cosa avviene nell’economia, nello stesso modo in cui influenzano i prezzi delle obbligazioni”.
“Supponiamo che nello stesso momento in cui i tassi di interesse sono in aumento, ci sia un boom di esportazioni o un taglio fiscale tale da mantenere il Pil in crescita e la disoccupazione stabile, in modo che non ci siano cambiamenti sui dividendi aziendali, sui redditi o su altre misure di cash flow”, spiega il professore nella sua analisi. Anche in questo scenario “gli alti tassi di interesse sarebbero negativi per i prezzi azionari, in quanto riducono il valore attuale scontato di quel flusso di cassa. Gli investitori non pagheranno tanto per un dollaro all’anno da adesso o per 10 anni da ora, se i tassi di interesse sono del 6% invece del 4%. Al contrario, gli investitori pagheranno di più per i contanti futuri se i tassi di interesse sono del 2% invece del 4%”.
Smith, procedendo a confrontare i rendimenti reali dei Treasuries decennali con i “cyclically adjusted earnings yield” delle azioni è arrivato a rintracciare un divario particolarmente favorevole per queste ultime, tale da giustificarne la convenienza, relativamente ai bond. I tassi d’interesse ultra bassi hanno contribuito a creare questo divario a favore dell’azionario. Ciò non significa, ancora una volta, che le azioni siano destinate a salire o a scendere, sottolinea l’autore: semplicemente che se fossero valutate “il 50% in meno”, come argomentano alcuni sostenitori dell’imminente crash, ciò non sarebbe più giusto (“fair”) in termini di prezzo, bensì “l’opportunità di acquisto di tutta una vita”.