
Roma – Qualche mese fa Pietro Ichino aveva rilanciato la sua proposta per modernizzare e flessibilizzare il mercato del lavoro sulla falsa riga del sistema danese cosiddetto della flexy security (flessisicurezza in italiano). Obiettivo: rendere il mercato del lavoro italiano in difficolta’ piu’ “mobile”, affiancando alla maggiore flessibilita’ dei meccanismi di occupazione in entrata e in uscita, ammortizzatori sociali molto consistenti.
Ora il governo, per voce del ministro del Welfare Elsa Fornero e del premier Mario Monti, ha espresso l’intenzione di aprire “un cantiere” sulla riforma del lavoro, la cui riflessione sembra che vertera’ sulla possibilita’ di introdurre nel nostro ordinamento principi di “flexicurity”. Anche in Europa si sta studiando il passaggio al modello danese, ma la crisi e le grandi differenze di veduta tra gli stati membri ha frenato qualsiasi progresso nelle trattative.
A un primo sguardo, la flexy security si presenta come il sistema ottimale di efficienza paretiano: le societa’ sono libere di assumere e licenziare quanto vogliono e i dipendenti non si devono preoccupare di perdere il loro lavoro perche’ lo stato e’ pronto ad aiutarli sia economicamente sia nella ricerca di un nuovo lavoro. Ma non bisogna farsi facili illusioni. Non e’ un caso infatti che sia un sistema di Welfare molto raro nei paesi industrializzati.
Dario Di Vico del Corriere della Sera suggerisce sul suo blog di guardare all’esempio offerto dall’accordo raggiunto tra Electrolux e sindacati a marzo 2011, che in Italia ha fissato principi e posto le basi di quello che la flexi security puo’ offrire in Italia. Dimostrando che puo’ funzionare al massimo solo a meta’.
“L’intesa – ricorda Di Vico – partiva dalla necessita’ di governare l’eccedenza di 700 addetti”. Tra le proposte robusti incentivi all’uscita e al prepensionamento, nonche’ un contributo all’auto-imprenditorialita’ di ben 37 mila euro e la garanzia aziendale per l’ottenimento di un fido bancario di 50 mila euro”.
Electrolux si e’ fatta carico di assistere l’operazione di ricollocazione del personale (in gergo “outplacement”) e di concedere aree per l’installazione di nuove attivita’ che in cambio avessero assunto i lavoratori in eccedenza. Un’intesa, dunque, decisamente innovativa che responsabilizza fortemente l’impresa. E che ricorda la “flexycurity”. Se non fosse che nel caso della sua trasposizione su scala nazionale, sarebbe lo stato a pagare e non l’azienda.
Inoltre lo schema disegnato dal gruppo di elettrodomestici ha funzionato solo in parte. Di Vico spiega che “la parte considerata piu’ tradizionale, quella che mette mano al portafoglio per concedere incentivi alle dimissioni, ha dato frutti, mentre la nuova strumentazione ha inciso molto meno”.
E non e’ affatto detto che la flexy security alla danese funzioni se applicata all’intero sistema paese italiano, viste le enormi e palesi diversita’ tra i due stati. Ichino ha proposto di partire lanciando i primi test in Lombardia, dove entrate fiscali e numero di abitanti sono in linea con i numeri anagrafici e le tasse della Svezia.
Tuttavia sono tante le verita’ innegabili che depongono a sfavore della sperimentazione e successiva introduzione di un tale sistema in Italia. Innanzitutto il contesto attuale recessivo: in un paese che avra’ davanti a se’ almeno due-tre anni di austerita’ come sara’ possibile ricollocare i disoccupati?
Un altro problema e’ costituito dall’evasione fiscale. In Italia – molto semplicemente – non ci sono i soldi per poter sostenere ammortizzatori sociali dispendiosi come quelli richiesti da un sistema di flexicurity classico ben funzionante.
La struttura socio economica danese e’ caratterizzata da un sistema fiscale “modello”, volto alla trasparenza, da una comunita’ omogenea socialmente e culturalmente e da una burocrazia efficiente. Il contrario del sistema Italia come lo conosciamo finora.
Secondo Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro della Bocconi, oltre agli ostacoli strutturali innegabili, la sostenibilita’ della flexy security richiede finanziamenti ingenti. “Solo per dare un’idea del peso finanziario richiesto da uno schema di questo tipo: secondo l’Ocse le spese sociali in Danimarca rappresentano il 41% della retribuzione pretasse, contro il 27% dell’Italia. Il carico fiscale nel paese scandinavo raggiunge circa il 30% contro il 18% italiano”.
Dopo l’entrata in vigore delle misure recessive del decreto Salva Italia, che prevedono l’aumento di Iva, Ici e altre tasse, come faranno i nostri amministratori a convincere gli italiani a pagare quasi il doppio di tasse e versare il 14% in piu’ di contributi?
Ancora non si conoscono nel dettaglio le misure che il governo Monti vuole introdurre e quali saranno gli accordi presi con le parti sociali. Partiamo dunque da quello che sappaiamo: la proposta di legge sostenuta da Ichino. Nel dettaglio, si tratta di una riforma dei contratti di lavoro che abolisca le forme di lavoro precario e i contratti a progetto, prevedendo l’assunzione a tempo indeterminato subito come forma normale di assunzione, ma con un periodo di prova di sei mesi e a seguire un regime di protezione crescente con la durata del rapporto di lavoro. Tra gli ammortizzatori sociali, verrebbe introdotta un’assicurazione contro la disoccupazione e maggiori indennita’, la cui copertura economica spetterebbe sia allo stato sia ai datori di lavoro.
I detrattori sostengono che una riforma di questo tipo potrebbe rivelarsi controproducente proprio per gli stessi precari. Un altro capitolo caldo della proposta riguarda infatti le modifiche alla disciplina dei licenziamenti, che vede divise le parti sociali. In particolare, il giuslavorista del PD propone di abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per la generalita’ dei licenziamenti, ad eccezione di quelli disciplinari, discriminatori o di rappresaglia, per i quali verrebbe matenuta la tutela reale. Per tutti gli altri, l’obbligo di reintegrazione sarebbe sostituito con un’indennita’ economica pari a un certo numero di mensilita’ di salario, crescenti con l’anzianita’ di servizio.
L’indennizzo (statale) sarebbe integrato da un’assicurazione contro la disoccupazione finanziata interamente dall’impresa. I critici – tra cui i sindacati – obiettano che con questa riforma diventa inconsistente l’applicazione della tutela reale contro licenziamenti disciplinari, discriminatori, di rappresaglia, perche’ il datore – sostengono – potrebbe interrompere il rapporto di lavoro con una motivazione, ad esempio economico-organizzativa, non opponibile davanti al giudice.
Ichino, invece, e’ convinto che con questa riforma dei licenziamenti si realizzerebbe una sostanziale eguaglianza di opportunita’ per tutti i lavoratori che accedono al tessuto produttivo, con superamento dell’attuale dualismo caratteristico del mercato del lavoro italiano.