MILANO – Lavorare con profitto ed essere felici si può. In che modo? Ce lo racconta Consolata Anguissola d’Altoé, counselor di approccio sistemico relazionale. Insieme a Pierangelo Pollini Croci, coach professionista, ha creato il metodo BienHetre, “per portare armonia nella propria vita e consapevolezza nella propria professione”.
Raccontaci come hai iniziato questo lavoro.
La mia esperienza in azienda, la mia esperienza nel mondo lavorativo è la sintesi di un’esperienza personale fatta sul campo, un campo artigianale, un campo di vita personale. Io ho sviluppato un approccio verso l’azienda partendo da una tesi, poi nella vita ho creato una piccola azienda in un periodo personale difficilissimo. Questo è stato il mio laboratorio in cui ho constatato personalmente i rapporti tra vita personale e professionale e i conseguenti meccanismi aziendali.
Amare il proprio lavoro: ma è davvero sempre possibile?
Lo può essere se si acquista la consapevolezza delle proprie capacità: ognuno di noi ha in sé tutto ciò che serve per vivere al meglio la propria vita e la propria professione. Obiettivo della mia attività è proprio quello di orientare le persone a sviluppare l’abilità di seguire una direzione, nel personale e nel lavoro. Ho sperimentato di persona cosa accade quando la vita personale, fatta di momenti attuali più o meno positivi e di eredità familiari, entra nell’azienda e come influisce sui meccanismi aziendali, a volte modificandoli a tal punto da non capire più lo scopo di quello che si sta facendo,con il rischio di non scoprire mai le proprie potenzialità di affermazione e/o di crescita professionale.
Come ci si riesce?
Il concetto è semplice: l’azienda in cui si lavora è “un’essenza vivente” che vive appunto grazie alle persone che con essa condividono energie, impegno, obiettivi, bisogni e competenze. Quindi ogni singola funzione, proprio come avviene in qualsiasi organismo vivente, è vitale ed ha un suo valore. Non importa a che livello si svolge la propria attività: tutti sono una risorsa. Il mio intento è proprio questo, e cioè portare le persone a sentirsi parte di un tutto e a riconoscere il posto esatto in cui si trovano.
In che modo si porta una persona a questa consapevolezza?
Con delle interviste, con dei colloqui individuali condotti insieme a Pierangelo: le nostre due figure complementari, di counselor e coach, di femmina e maschio, ci consentono di ascoltare i meccanismi aziendali e umani di relazione da due punti di vista, senza pregiudizi di nessun tipo. Proponiamo alla persona che incontriamo di poter lavorare meglio, di poter sviluppare il proprio talento, di poter conoscere come potenziare il suo modo di lavorare, per restituirle i dati che lei stessa ha già ma che fino a quel momento non ha potuto per qualche motivo vedere. L’anelito comune è quello di condividere questa crescita; noi non siamo lì come consulenti o per propinare qualcosa, ma siamo lì insieme per crescere insieme.
E la risposta è positiva?
Sì, perché da questo primo incontro si sviluppa e si sprigiona una forza che successivamente fa aprire totalmente la persona, e in questa apertura conosce aspetti di sé e riconosce le relazioni e i collegamenti fra la sua vita personale e quella aziendale. E’ spinta ad alzare il tiro, ad alzare il livello: se, per esempio, aziendalmente era orientata solo ad arrivare a fine mese, che comunque è un processo mentale storico da rispettare, arriva ora a percepire che se vuole fare meglio e vivere meglio, deve essere educata a qualcosa di meglio. Quindi non a partire da “tirare la fine mese”, ma a partire dal proprio talento da mettere in condivisione con gli altri.
Quanto influisce il vissuto personale sul proprio lavoro?
Molto, e non parlo solo di quello che ci accade in quel momento, ma anche dell’effetto che echi del passato familiare hanno sul nostro comportamento. Mi spiego: in alcune strutture si percepisce un approccio aziendale che risuona ancora un po’ di “guerra”: è come se la persona, per motivi che non conosce ma che probabilmente fanno parte della storia della sua famiglia, la guerra la stia vivendo ancora adesso, come se fosse sempre in trincea, costretta a vivere una battaglia. Abbiamo infatti tutta una serie di memorie che poi trasliamo nel mondo aziendale, dall’esterno lo noti subito e senti quanto il sistema azienda sta risuonando di quelle informazioni.
E come si interviene su questo aspetto?
Il lavoro da fare è a vari livelli, partendo dal suo “sistema famiglia” e dalla sua posizione in azienda: per prima cosa si accompagna la risorsa-persona a ritrovare il proprio posto nell’organismo, ad essere comodo e non sentirsi fuori posto nella funzione che riveste. Questo non significa che poi smette di fare meglio, al contrario: dalla sua comoda posizione ha più voglia di fare, di dare di più, sempre di più; vuole essere più presente, più risonante con il proprio talento e di prendersi, a tutti i livelli, le proprie responsabilità, anche quelle che servono per fare e vivere meglio. Per rendere l’idea uso questa immagine: se tu stai fuori posto è come se prendessi uno spintone di lato che ti scansa e allora cominci ad agire in modo faticoso in azienda, con i colleghi, i superiori, l’intera struttura. Viceversa, quando sei al tuo posto senti come una forza che ti spinge, che ti accompagna, che ti dà la direzione per scoprire il tuo talento e l’abilità di fare meglio.
Si può dire che si smette di accusare il contesto di eventuali insuccessi e si inizia a diventar responsabili di eventuali successi?
Certamente, la consapevolezza del proprio agire, del valore delle proprie azioni, anche delle più piccole come mandare o rispondere distrattamente o con fatica (tanto chi se ne accorge, a chi importa?) a una mail, porta la persona a non sentirsi più vittima di un sistema che non la apprezza. La differenza fra scrivere una mail, fare una telefonata da arrabbiato, stressato o senza nessuna voglia, e fare le stesse cose dopo essersi fermato un attimo a respirare (due o tre bei respiri) o a bersi “con solennità” un sorso d’acqua sarà evidente nel beneficio che si porta a sé stessi e agli altri che condividono lo stesso lavoro, la stessa azienda. Questi gesti devono diventare un rito di accompagnamento delle azioni di lavoro, che non sono solo azioni personali ma che coinvolgono sempre il gruppo, la comunità. La qualità con cui si vive, si compie ogni azione, ogni evento attuale significa infatti seminare in un certo modo per il futuro, nostro e dell’azienda.