(WSI) – Dopo la lunga e drammatica parentesi della crisi il mondo torna a una versione dimezzata della seconda Bretton Woods. Una data spartiacque è stata il 2 ottobre. Dal luglio 2008 al 2 ottobre 2009 il dollaro ha funzionato come termometro della crisi rafforzandosi a ogni cattiva notizia e indebolendosi a ogni nuovo elemento positivo. Il 2 ottobre, per la prima volta da più di un anno, ha reagito a un importante dato deludente, un aumento imprevisto di nuovi disoccupati in America, scendendo (e non salendo come avrebbe fatto fino al giorno prima).
In dollaro, quindi, ora scende quando c’è un dato positivo (perché i trader aprono con più tranquillità posizioni di carry finanziate in dollari) ma scende anche in presenza di dati negativi. Scende perché il Tesoro americano (che gestisce la politica valutaria) non ha nessuna voglia di rischiare una perdita di slancio nella ripresa dell’economia. Scende perché l’amministrazione Obama (e Larry Summers come architetto designato a costruire questa ripresa) vuole presentarsi alle elezione del novembre 2010 con alle spalle qualche mese di ripresa dell’occupazione e deve muoversi ora, senza perdere un minuto, per arrivare in tempo. Se puo’ interessarti, in borsa si puo’ guadagnare con titoli aggressivi in fase di continuazione del rialzo e difensivi in caso di volatilita’ e calo degli indici, basta accedere alla sezione INSIDER. Se non sei abbonato, fallo ora: costa solo 0.77 euro al giorno, provalo ora!
Scende perché la Fed aspetterà con molta pazienza (Mishkin dice per molti anni) prima di implementare la sua exit strategy, ma non vuole aspettare un’eternità e preferirebbe evitare di dovere procedere in direzione opposta, riallargando il quantitative easing in caso di ricaduta del ciclo.
Il dollaro non scende perché rende zero. Rendeva zero anche sei mesi fa e se è per questo rendono zero o poco più di zero anche l’euro e lo yen. Né scende perché la Cina e l’Opec non vogliono più i dollari. Non li volevano neanche sei mesi fa, ma hanno continuato a tenerli per non rivalutare. Scende, il dollaro, per i motivi di policy citati sopra e per una seconda ragione, altrettanto importante, e cioè che stiamo rientrando nella normalità. La normalità della seconda Bretton Woods.
Ripercorriamo la sequenza degli eventi seguiti al 2 ottobre. Il dollaro, inaspettatamente, scende. L’oro, ma soprattutto il petrolio e le materie prime salgono per recuperare la debolezza del dollaro. I petroliferi e i minerari salgono a Wall Street e si tirano dietro l’acciaio, che si tira dietro i ciclici. Dopo pochi giorni una borsa che da settimane aspettava lo spunto per una correzione (e questo spunto se lo vede consegnato su un piatto d’argento sotto la forma di un importante dato negativo) si ritrova su nuovi massimi. Le borse asiatiche ed europee, che si ispirano a Wall Street e di norma non guardano ai cambi, segnano anch’esse nuovi massimi di periodo.
Alla fine si ottengono due risultati straordinariamente importanti.
Si riacciuffa per i capelli la borsa e, tramite la borsa, il sentiment di consumatori e imprese. Facciamo un po’ di storia controfattuale. Che cosa sarebbe successo se il dollaro, il 2 ottobre, si fosse rafforzato? Le materie prime, già deboli nei giorni precedenti, sarebbero scese ulteriormente, deprimendo metà listino a Wall Street. L’armata dei doubledippers avrebbe rialzato la testa profetizzando sventure. Il consumatore al margine, incerto se cambiare la macchina, guardando la borsa avrebbe rinviato l’acquisto.
Il consiglio di amministrazione al margine, incerto se cancellare o meno il piano per rinnovare i computer aziendali arrugginiti, l’avrebbe cancellato. Se insistiamo sul margine è perché al margine i mercati finanziari, pur essendo di loro un motorino, possono riuscire a fare pendere la bilancia da una parte o dall’altra e a trascinarsi dietro il corpaccione pesante dell’economia reale.
Non si fanno danni a Europa, Asia, Opec ed emergenti. In teoria un paese che svaluta ruba crescita a tutti gli altri e il gioco è a somma zero. Nella realtà non è così da 75 anni.
Quando nel marzo del 1933 Roosevelt svalutò il dollaro contro l’oro gli Stati Uniti, costringendo il Regno Unito e più tardi la Francia a fare altrettanto, reflazionarono il mondo con un gioco a somma positiva. Quando Keynes infilò nella prima Bretton Woods la possibilità per gli Stati Uniti di barare al gioco un poco ogni anno con una svalutazione di fatto contro l’oro, il mondo intero, negli anni Cinquanta e primi Sessanta, ne trasse vantaggio colmando più velocemente il suo output gap. Nella seconda Bretton Woods il gioco è ancora più trasparente.
Il dollaro debole costringe tutti a politiche più espansive e, così facendo, porta crescita nel mondo. L’Europa è costretta a rivalutare, ma accetta di buon grado perché, da esportatrice, preferisce avere un mondo che cresce e compra i suoi prodotti (per quanto resi cari dall’euro forte) piuttosto che avere un euro basso, competitivo sulla carta ma privo di mercati di sbocco perché non c’è crescita.
In momenti come questo, il dollaro debole è il combustibile della macchina benefica del moto perpetuo della crescita globale. L’enorme capacità inutilizzata, umana e industriale, fa sì che il paese che svaluta, gli Stati Uniti, non abbia da temere l’inflazione che in condizioni normali accompagna una svalutazione. Salirà il prezzo interno della benzina, ma di poco, e basta. Del resto, per un americano (e per chiunque) è meglio avere un lavoro e pagare un po’ di più la benzina o è meglio avere la benzina a buon mercato da disoccupato?
Si diceva sopra che il ritorno al paradigma della seconda Bretton Woods sarà comunque in tono minore rispetto ai fasti del 1998-2007. L’abbiamo chiamato il dimezzamento della seconda Bretton Woods. Questa è per metà una previsione e per metà una speranza e spieghiamo subito il perché. E’ una previsione, ed è anzi già un dato di fatto, perché gli squilibri tra America e resto del mondo sono già più che dimezzati. L’America finalmente risparmia qualcosa (senza esagerare, con gli ultimi dati siamo al 3 per cento del reddito) e l’Asia, con qualche sforzo, consuma di più. Le partite correnti americane erano in rosso per quasi il 7 per cento del Pil, ora sono sotto il 3 e lì, presumibilmente resteranno.
Va bene, si potrà dire, ma anche accettando questo discorso ci sarà pure un limite per le valutazioni di borsa, o siamo entrati davvero nel mondo fatato delle macchine del moto perpetuo? E’ una domanda sensata, che a un certo punto sarà giusto porsi. Non adesso, però, non nei giorni in cui gli utili di molte grandi società, dalle banche alla tecnologia, escono di gran lunga sopra le attese e tutto fa pensare che, almeno per i prossimi due tre mesi, i circoli virtuosi continueranno a funzionare.
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