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(WSI) –
La scorsa settimana è arrivata la conferma che l’economia statunitense sta rallentando vistosamente: il tasso di crescita del pil che nel primo trimestre marciava al ritmo annuale del 5,5%, nel terzo trimestre è sceso al 2%. Una decelerazione che non significa recessione visto che i numeri sono in ogni caso positivi.
Però l’economia Usa è in sofferenza: seguita a importare troppo; l’attività edilizia, dopo anni di boom, registra «abbondanti decrementi» – come ha commentato il Bureau of Economic Analysis – e c’è un forte rallentamento anche nell’accumulo di scorte, segnale anticipatore di un rallentamento della domanda.
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Di più: sotto la spinta del forte rialzo delle quotazioni delle materie prime, l’inflazione si mantiene a livelli di guardia, tanto che convincere la Fed a non ridurre i tassi che in prospettiva potrebbe essere addirittura aumentati.
Eppure, lo abbiamo già accennato nei giorni scorsi, mai come nel 2006 i profitti delle imprese sono andati così bene: il rapporto tra fatturato e profitti si aggira sul 10%. Una cifra enorme che in molti analisti ha evocato lo spettro del ’29. Anche allora i profitti si sfioravano il 10%. Poi, all’improvviso la grande bolla esplose e l’economia Usa (e non solo) precipitò nella più grande crisi economica dell’era moderna.
Al boom dei profitti fa riscontro una caduta della quota di reddito destinata al lavoro: nei primi 9 mesi del 2006 al lavoro è andato il 56,5% del Pil. Solo nel 2000 la quota era due punti più alta. La sintesi è una crescita della produttività molto legata ai bassi salari e una ridotta capacità di spesa per decine di milioni di famiglie che per mantenere inalterati o quasi i consumi sono costrette a indebitarsi sempre di più. Non a caso il risparmio delle famiglie da mesi è negativo.
Il meccanismo dell’indebitamento era perfettamente oliato dalla crescita dei valori delle abitazioni che consentiva la rinegoziazione dei mutui e dai bassi tassi di interesse che consentivano la crescita del credito al consumo a poco prezzo. Ora queste condizioni sono al capolinea, i consumi frenano e l’economia rallenta.
A peggiorare la situazione si aggiunge la progressiva svalutazione del dollaro che rende più care le merci importate. Però la svalutazione sembra l’unica possibilità di uscita degli Usa dalla stagnazione. Certo, sarebbe possibile attuare politiche fiscali e di bilancio differenti. Ma queste non sembrano all’ordine del giorno e nemmeno nel programma dei democratici.
Allora, come nel ’85 con l’accordo del Plaza non rimane che la via della svalutazione «pilotata» per ridare competitività e frenare l’import. Ma nei piani Usa potrebbe inserirsi una variabile impazzita: se l’Iran e altri paesi decidessero di convertire, come minacciato, le riserve in dollari in euro, potremmo assistere a un crollo improvviso della valuta Usa e la crisi potrebbe esplodere improvvisa.
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