Eppur si muove. Anche l’Europa s’è desta e sta decidendo di utilizzare la leva della spesa pubblica e forse anche di quella monetaria per tentare di rilanciare un’economia che sta rischiando di lasciarsi invischiare in una lunga e pericolosa recessione.
La svolta è di grande rilevanza e ha implicazioni non solo economiche ma anche politiche. Infatti il risveglio europeo è il primo frutto della rifondazione dell’alleanza franco-tedesca, che si ripropone come l’indispensabile motore dell’Unione Europea, attorno a due obiettivi condivisi sia dalla Francia di Chirac sia dalla Germania di Schroeder.
Essi sono il rilancio dell’economia europea attraverso l’uso della spesa pubblica e la richiesta alla Banca Centrale Europea di condurre una politica monetaria espansiva e l’affermazione dell’indipendenza e dell’autonomia della politica estera del Vecchio Continente nei confronti degli Stati Uniti con il non nascosto obiettivo di creare un rapporto politico ed economico privilegiato con la Russia di Putin.
Il programma di Chirac e Schroeder appare chiaro. Per quanto riguarda la politica economica, il primo e decisivo obiettivo è liberarsi della «camicia di forza» rappresentata dal Patto di stabilità, che impone ai paesi che hanno adottato l’euro di perseguire il pareggio dei conti pubblici e soprattutto di non avere un deficit annuo superiore al 3% del Pil.
In questo modo deve essere letto l’epitaffio pronunciato dal presidente della Commissione europea, Romano Prodi, il quale in un’intervista al quotidiano francese Le Monde ha dichiarato che «il Patto di stabilità è stupido perché è rigido».
L’iniziativa di Prodi non è casuale, ma segue di pochi giorni la cena informale tra il presidente francese e il cancelliere tedesco di lunedì scorso all’Eliseo. L’idea franco-tedesca di rendere più flessibile e/o di adattare il Patto di stabilità può già sin d’ora contare sull’appoggio dell’Italia di Berlusconi e di molti altri Paesi europei (in primis, il Portogallo) che hanno difficoltà a far restare il disavanzo pubblico al di sotto del 3% del Pil.
L’obiettivo è anche assolutamente condivisibile dal punto di vista economico. I motivi sono semplici. In primo luogo, l’economia europea sta stagnando e rischia di entrare in un lungo periodo di bassi tassi di crescita o addirittura di recessione. In una fase congiunturale di questo tipo la politica fiscale non può e non deve essere prociclica, come imporrebbe il rispetto del Patto di stabilità, ma anticiclica.
In secondo luogo, il peggioramento dei conti pubblici europei non è il frutto di politiche spendaccione dei governi europei, ma il risultato del forte rallentamento economico che ha ridotto drasticamente le entrate fiscali.
Infatti secondo il Fondo Monetario Internazionale, il deficit strutturale (ossia depurato dagli effetti del ciclo economico) dei conti pubblici dei paesi di Eurolandia sarà quest’anno dell’1,1%, ossia allo stesso livello del 2000. A titolo di paragone, il deficit pubblico strutturale statunitense sarà quest’anno dell’1,9%, mentre nel 2000 gli Stati Uniti vantavano un avanzo pubblico dello 0,9% del Pil.
In altre parole, negli USA si è giustamente usata la politica fiscale in funzione anticiclica, mentre in Eurolandia si è solo tirato la cinghia. La continuazione di una simile politica in un contesto di crescita economica di poco superiore allo zero è puramente un esercizio di «masochismo».
Infatti, i tagli alla spesa pubblica e/o gli aumenti delle tasse conducono a un ulteriore peggioramento della situazione economica e a una diminuzione del gettito fiscale, che quindi, richiede ulteriori tagli da parte dello Stato e così via.
Dunque, la fine del Patto di stabilità è da salutare come un evento estremamente positivo, soprattutto se esso avverrà stabilendo nuove regole (usare il deficit strutturale quale criterio di calcolo, oppure non considerare gli investimenti pubblici nel deficit, ecc.) che impediscano che ogni Paese faccia quello che vuole, poiché in un’unione monetaria occorre un coordinamento e una disciplina comune nella conduzione della politica fiscale.
Il secondo strumento di rilancio dell’economia europea è la politica monetaria. Quest’ultima è condotta da una Banca Centrale Europea, completamente indipendente, che è apparsa unicamente attenta a contenere l’inflazione.
Il risultato è che i tassi sono troppo elevati e frenano la crescita economica. Ma anche da Francoforte, sede della Bce, sembra spirare aria nuova. Giovedì scorso, l’istituto presieduto da Win Duisenberg ha infatti reso pubblico uno studio in cui rende manifesto il timore di una contrazione dei consumi delle famiglie europee che farebbe immediatamente cadere in recessione Eurolandia.
Non è quindi azzardato prevedere che nelle prossime settimane la Banca Centrale Europea comincerà ad abbassare i tassi. Dunque, Parigi e Berlino stanno cercando di rimettere in moto la macchina economica di Eurolandia, ma gli obiettivi non sembrano limitarsi alla definizione di una politica di rilancio economico, ma anche alla liberazione da quelle regole (elaborate in contesti economici e politici diversi dagli attuali) che oggi risultano pericolose (regole anti-trust, ecc.), poiché rischiano di far fallire o di consegnare a speculatori d’oltre Atlantico gioielli dell’economia europea.
L’asse franco-tedesco non si sta rinsaldando unicamente sulle questioni economiche, ma anche sulla politica internazionale. È palese che Parigi e Berlino con il loro no alla guerra all’Iraq vogliono anche condurre una politica estera di maggiore autonomia ed indipendenza nei confronti degli Stati Uniti di George Bush e che in quest’ottica puntano sulla costruzione di un rapporto privilegiato con la Russia di Putin.
Siamo dunque in presenza di una grande svolta della politica europea che induce a ritenere che il Vecchio Continente stia uscendo dal letargo in cui era sprofondato negli ultimi anni.
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