Società

LA SECONDA RIVOLUZIONE
DI INTERNET: L’INTELLIGENZA

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Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Soltanto domani
sapremo se è vero che
Google entra nel settore dell’hardware
con un proprio
computer. Un computer che
non ha sistema operativo e
neppure applicativi perché il
tutto si può tranquillamente
trovare su Internet. Non è che
“scarichi” il software: lo usi, e
questo è tutto. Il software è
gratis, e il computer, che si riduce
a un semplice terminale
di connessione, costa 200 dollari.
Alla faccia di Microsoft!

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Ma non dobbiamo aspettare
domani per domandarci che
cosa stia succedendo a Internet
e al mondo della tecnologia.
E neppure per provare ad
avanzare qualche risposta. E
la prima risposta, molto semplicemente,
è che la rivoluzione
di Internet è alla sua seconda
fase. C’è stato un periodo,
nei cinque anni successivi allo
scoppio della bolla delle Dot-
Com, in cui si è apertamente
parlato di una fine di Internet.
Malgrado il numero degli accessi
alla rete fosse in costante
aumento, malgrado il numero
dei siti crescesse esponenzialmente,
malgrado e-mail, motori
di ricerca, sistemi di appuntamento
per single (e non
solo) entrassero invasivamente
nella nostra vita… beh, Internet
era finita. E invece no:
Internet non ha fine. Era tutto
uno scherzo. La rete sta benissimo.

E questa è la storia di
web 2.0 (la vendetta). Il processo
di avvicinamento alla
nuova stagione di Internet è
maturato grazie alla diffusione
delle broadband, cioè alla
connessione veloce. E’ stata la
possibilità di viaggiare attraverso
la rete senza tempi di attesa,
e inoltre la possibilità di
scaricare documenti, e poi
canzoni (suono), foto e inevitabilmente
cinema e televisione
(video), il telefono (voce),
ecc., che ha aperto la porta
agli ulteriori sviluppi di cui
stiamo andando a parlare. Il
processo di avvicinamento,
comunque, si è sviluppato attraverso
una serie di momenti,
ognuno dei quali è stato a suo
tempo prontamente descritto
ai lettori del Riformista.
Innanzitutto i web service
(autunno 2003): scrivevamo
allora che ormai le imprese dispongono
di un’alternativa:
invece di acquistare software,
esse possono affittarlo via Internet.

In pratica, avviene che
l’azienda non compra più applicazioni,
magari applicazioni
che le consentono di operare
su Internet, ma Internet mette
in condizione l’azienda di
operare con le applicazioni.
Abbiamo applicazioni software
scaricabili da un semplice
sito web, nessun problema
d’integrazione tra diverse tecnologie,
niente da installare
sul nostro pc, addestramento
e formazione ridotte al minimo.
Il business model è ribaltato.
Le aziende non hanno
più il problema di
procedere a importanti
investimenti in
imponenti installazioni
di software,
aggiornamenti periodici
della tecnologia
e pervasivi
programmi di formazione.

Tutto ciò
che devono fare è scaricare da
Internet ciò di cui hanno bisogno
per il tempo per cui ne
hanno bisogno.
Quindi, software on demand.
Venne il tempo delle
prime prove di web 2.0 condotte
da Google con Gmail
(primavera 2004), dei social
network (estate 2004) e della
quotazione di Google (autunno
2004). Gli eventi cominciano
a susseguirsi con maggiore
intensità e a distanza ravvicinata:
il successo di Apple e
iPod sulla digitalizzazione del
suono e del business della musica
apre la strada alla possibilità
di analoghe avventure da
tentarsi su immagine e voce
nei business del cinema e televisione
e telefono (primavera
2005). Google acquista una
dopo l’altra start-up e integra i
loro web service nel web service
per eccellenza, il proprio
motore di ricerca (estate
2005). Lo stesso fa Yahoo e
inizia a fare Microsoft. Poi e-
Bay acquista Skype (autunno
2005) e siamo ormai sull’orlo
della nuova rivoluzione tecnologica.

Infine, e su questo dovete
credermi sulla parola, i
coffee bar della Silicon Valley
sono tornati a riempirsi di
programmatori che rampettano
da un tavolo all’altro scambiandosi
reciprochi ridolini di
soddisfazione. Google ha annunciato
che renderà wireless
Mountain View, la cittadina
che ospita i suoi uffici, ed è
pronta a fare lo stesso (gratis)
a San Francisco. I ristoranti di
Palo Alto sono pieni di businessman
e venture capitalist
che si scambiano il
cellulare per “giocare”
con Google
sms, servizio ancora
alla versione Beta
eppure già disponibile
per chi vuole
usare il potente motore
di ricerca via
cellulare (ww.google.
com/sms/demo.html). L’aria
si è rarefatta, è diventata
più frizzante.

E non è l’inverno
che si preannuncia. Qui ci
sono venti gradi centigradi, i
bambini in maglietta e calzoni
corti strattonano le mamme
per le strade, gli uomini indossano
di nuovo con orgoglio la
tradizionale uniforme della
Silicon Valley, calzoni kaki e
polo blu, e le ragazze si scoprono
generosamente. No, è
tutt’altro:The Next Big Thing
is coming out (anche se questo
non significa automaticamente
l’avvio di una nuova
Dotcom Bubble).

Malgrado l’interesse intorno
alle nano e alle biotecnologie
stia crescendo, confermato
dai crescenti investimenti
di capitale di rischio
nelle start-up del settore, l’unica
innovazione capace di scaldare
il cuore notoriamente algido
dei venture capitalist nell’ultimo
lustro è stato il wireless,
tre anni fa, non per niente
una propaggine del ben più
ampio discorso intorno a Internet.
Non è quindi casuale
se The Next Big Thing abbia
ancora una volta, inevitabilmente,
si dovrebbe aggiungere,
a che fare con la rete. Ma
che cosa sta succedendo a Internet?

Semplice, sta evolvendo
a colpi di feed back: ad
ogni azione corrispondono
due reazioni, una interna al
circuito locale che ha ricevuto
l’azione originaria, l’altra al
suo esterno, nell’ambiente in
cui il circuito è presente. Altri
circuiti sono interessati dalla
reazione del primo, e sviluppano
una reazione al loro interno,
che ne modifica la struttura,
e un’altra all’esterno, che
coinvolge altri circuiti. E così
via. Insomma, la rete, che altro
non è se non la sommatoria di
questi circuiti locali tra loro
connessi, non si modifica in
funzione dell’ambiente esterno,
ma si modifica autonomamente
e in funzione dei propri
cambiamenti. Quindi, cosa sta
succedendo a Internet? Semplice,
in quanto sistema autoorganizzato
non dotato di regole
prestabilite e predefinite,
sta procedendo attraverso un
percorso casuale che si configura
in pratica come un processo
di apprendimento. Insomma,
Internet sta diventando
intelligente. Internet
non è più un centro commerciale,
un’agorà, un ufficio postale
e neppure una cabina
del telefono. In maniera sempre
più evidente, Internet sta
assumendo sempre più chiaramente
i contorni di una
mente, nel senso che sta
strutturandosi e organizzandosi
con una memoria a breve
e una a lungo termine, sistemi
di sicurezza, connessioni,
ecc.

Google cerca le informazioni
come noi cerchiamo
le informazioni immagazzinate
nella nostra memoria,
Yahoo classifica le informazioni
con una sua propria logica,
come noi facciamo abitualmente
nella nostra mente.
E, come tutte le menti, sviluppa
processi cognitivi.
Per chi non è “del mestiere”,
potrà forse apparire un
po’ esagerato parlare di Internet
intelligente (o, come si dice
qui, smart network), ma chi si
è occupato di AI (artificial intelligence),
chi ha letto i libri di
Hofsadter (soprattutto Godel,
Escher, Bach: an Eternal Golden
Braid, prima edizione del
1979), o si è studiato il connessionismo,
sa che questo è un
sogno che si trasforma in
realtà, la materializzazione di
quella “società della mente” di
cui scrisse Marvin Minsky nel
1987. La rete è, per usare i termini
tecnici appropriati, un sistema
di network che producono
cognizione grazie all’emergenza
di stati globali in
una rete di componenti semplici.

Il che tradotto significa
che la rete è un insieme di elementi
differenti tra loro (possiamo
chiamarli “nodi”, nel
cervello li chiamiamo “neuroni”)
ma che interagiscono liberamente
e volontariamente tra
loro, cioè per scelta; questa interazione
non produce semplicemente
nuove informazioni,
ma l’emergenza di eventi intelligenti,
cioè innovazioni (dove,
con “eventi intelligenti”, intendiamo
la dinamica stessa del
sistema). Insomma, all’innovazione
non si arriva per intenzione,
ma per caso. Essa è il risultato
di un percorso, non l’obiettivo
di una azione. Conseguentemente,
la rete non è un
progetto, nel senso che non
può essere progettata in anticipo,
la sua costruzione avviene
nel mentre è costruita.
Internet non è più uno
strumento che noi utilizziamo
ma dal quale manteniamo una
distanza, come la televisione.

Al contrario, noi siamo parte
integrante di Internet, dal momento che operiamo su Internet,
che la riempiamo di contenuti,
la partecipiamo così come
si fa con la preparazione
dei cibi. Quello che le nuove
start-up stanno cercando di
creare sono le relazioni, cioè
le connessioni tra un sito e
l’altro, tra un documento e
l’altro, tra un utilizzatore e
l’altro, tra un messaggio e l’altro,
tra un format (per esempio,
lo scritto) e l’altro (per
esempio, il suono), tra una applicazione
(per esempio,
Yahoo Photo) e l’altra (per
esempio, Msn Photos), tra un
percorso e l’altro, tra la ricerca
compiuta oggi e quella
compiuta ieri, tra la mia ricerca
e la tua, la vostra, la loro.
Ancora più importante, ciò
che stanno cercando di creare
sono connessioni in grado
di cambiare in base all’esperienza
maturata.

Sintetizzando, possiamo
quindi dire che il passaggio da
web 1.0 a web 2.0 è la espressione
del desiderio di elevare il cervello e non più il calcolatore
quale metafora di riferimento
di Internet. Come ha
scritto Rumelhart (1986), non
c’è più hardware e non c’è più
software, ma soltanto connessioni.
E tutte le connessioni
sono in un certo senso
hardware (in quanto hanno
una natura fisica), e sono in un
certo senso software (in quanto
si possono cambiare). Niente
più regole rigide (standard),
niente più winner takes it all.
Anche le leggi della new economy
cambiano.

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