(WSI) – George Bush è salito ieri sulla pedana circolare frettolosamente montata la notte prima al centro del Madison Square Garden per convincere un paese spaccato di meritarsi la rielezione. Ancor prima del discorso, però, i grandi media gli hanno mostrato di essere pronti a rinnovargli quella fiducia che potrebbe portargli i voti necessari alla vittoria.
Dopo tre giorni di preparazione e di accuse sempre più aspre nei confronti di John Kerry, Bush è stato ben attento a non distruggere l’immagine costruita per lui dagli oratori dei giorni scorsi, da Giuliani a Dick Cheney, ha ripercorso i suoi difficili passi dopo l’11 di settembre e difeso la sua decisione di attaccare l’Iraq. Un scelta che, a suo giudizio, ha convinto la Libia a rinunciare al terrorismo e assicurato una solida alleanza con il Pakistan e l’Arabia Saudita.
Più tormentata e cesellata, la parte dedicata alla politica interna ha offerto uno spiraglio di proposte per il futuro dal miglioramento dell’educazione ai programmi per facilitare la cosiddetta ownership society, la società dei proprietari di casa e dei piccoli imprenditori.
Per non scontentare i moderati, però, il discorso ha sorvolato sull’aborto e sul matrimonio degli omosessuali. Ai conservatori, Bush ha preferito non ricordare le leggi sull’immigrazione che non fanno passi avanti in Congresso e il deficit di bilancio, ma ha parlato della fede e dei tagli fiscali. Sull’economia, che per i repubblicani è un bicchiere mezzo pieno e per i democratici un bicchiere mezzo vuoto, le parole del discorso sono rimaste quelle del generico ottimismo.
A dare un’idea di quello che Bush ha ottenuto saranno, oggi, i risultati degli inevitabili sondaggi d’opinione a caldo. Proprio oggi, tra l’altro, usciranno i nuovi dati sull’occupazione, che potrebbero riportare la Casa Bianca su un terreno più solido per quanto riguarda l’economia o rafforzare le armi di Kerry in un settore cruciale.
I suoi risultati, comunque, il grande show di Karl Rove al Madison Square Garden li ha già ottenuti. Tra i delegati è tornato il sorriso. Grazie a una polizia inflessibile, che non ha esitato ad arrestare 1700 dimostranti (e qualche turista), le manifestazioni non hanno disturbato più di tanto la grande festa e non hanno distratto le telecamere.
E soprattutto la stampa e i grandi media non hanno perso tempo a riallinearsi con una convenzione che ha offerto loro degli autentici beniamini del pubblico come Rudolph Giuliani e Arnold Schwarzenegger.
Sui grandi giornali, che solo pochi mesi fa si erano scusati con i lettori per aver creduto troppo facilmente alle affermazioni della Casa Bianca prima della guerra con l’Iraq, le proteste dei democratici per le accuse contro Kerry e i cerotti con il purple heart sul viso dei delegati non hanno quasi trovato posto.
I voltafaccia di Bush sulla guerra al terrorismo, che avrebbero probabilmente scatenato infinite polemiche se il colpevole fosse stato il candidato repubblicano, sono passati sotto silenzio. Convinte dai rating che hanno dato alla Fox un numero di ascoltatori superiore a quelli della Cnn e della Msnbc messe insieme, le grandi catene televisive hanno spesso scelto di adeguarsi alla copertura della televisione di Murdoch.
«Fox non è conservatrice, è un’estensione del partito repubblicano», ha affermato Charles Rangel, uno dei pochi democratici che hanno partecipato a un dibattito sul canale. Ma mi hanno offerto uno spazio onesto perché servo. Sono un boccone per i loro ascoltatori». «La stampa è già pronta a scrivere una storia sulla rinascita di Bush per il week-end, manca solo qualche dettaglio del discorso», ha commentato ieri ironico The Hotline, il sommario distribuito alla stampa accreditata alla convention dal National Journal.
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IL DILEMMA SHAKESPERIANO. E’ ENRICO V O CORIOLANO?
Convention/2: Dietro i paragoni letterari su George Bush II. Gli storici si dividono nel giudizio sulla presidenza imperiale.
Sul palco del Madison Square Garden non si è presentato un presidente, ma re Giorgio II. Ci voleva un inglese per paragonare George W. Bush a un sovrano. In realtà, già i founding fathers avevano concepito il presidente come un monarca eletto dal popolo. E Arthur Schlesinger jr. una trentina d’anni fa aveva introdotto la categoria di «presidenza imperiale» analizzando come da Richard Nixon in poi si è trasformata la costituzione materiale. Ma «Dubya» Bush?
Niall Ferguson, uno dei più brillanti storici inglesi, quello che ha avuto il coraggio di scrivere che la storia si fa con i se (è stato il teorico della virtual history) vive e insegna negli Stati Uniti e ha pubblicato una serie di brillantissimi saggi sull’America in guerra (l’ultimo libro, «Colossus: the Price of American Empire»). Sul numero di settembre di Vanity Fair, ha paragonato Bush a un grande monarca inglese, Enrico V, visto con gli occhi di William Shakespeare.
L’idea è piaciuta talmente che l’ha rilanciata Nicholas D. Kristof sul New York Times, arrivando a un’altra conclusione, anch’essa shakespeariana. Sempre più la vera posta della campagna elettorale si chiama character e, per comprendere un uomo, la storia e la poesia spesso sono più utili della politologia. Tanto più per capire un personaggio complesso come George W. Bush.
Ma perché Enrico V? «Ricordate il principe Hal descritto da Shakespeare?», scrive Ferguson. Era un giovane sbandato e semialcolizzato. Sembrava impossibile che potesse ereditare il regno. Una volta incoronato, non solo divenne sobrio, retto, invasato di spirito religioso («Non sono un tiranno, ma un re cristiano», recita un verso di Shakespeare), coraggioso e determinato. Tanto da concepire l’ambizioso disegno di unire l’Inghilterra e la Francia.
Le somiglianze sono impressionanti. Anche Bush è stato sottovalutato, anche lui si sente pervaso da una missione divina (la libertà e i diritti umani, ha dichiarato a Bob Woodward, non sono stati creati dagli stati Uniti, ma derivano direttamente da Dio). «Dubya», come veniva chiamato con nomignolo ridicolo, ha mostrato di essere determinato, coraggioso, deciso fino alla testardaggine. Proprio come Enrico V, è stato manipolato dalla corte (soprattutto da Cheney e da Rove), ma nei momenti decisivi ha saputo prendere il comando nelle sue mani.
La domanda è se anche George II finirà allo stesso modo. Ferguson, che pure è un conservatore, risponde di sì: «Il re inglese vinse gloriosamente ad Agincourt. Ma l’unione dell’Inghilterra e della Francia durò poco e sotto il suo successore, Enrico VI, il paese scivolò nella guerra civile» (la guerra delle due rose). Come Enrico V, questo presidente ha mostrato molta più capacità di quel che la sua condotta giovanile avrebbe fatto pensare. Ha condotto non una, ma due guerre vittoriose.
Tuttavia i suoi risultati si sono rivelati deboli e fragili. Non è ancora chiaro se egli sia quel personaggio forte e deciso che i suoi consiglieri vorrebbero farci credere. Ha condotto la guerra con troppo poco rispetto per la legalità dei mezzi e ha avuto troppa fiducia nella sostenibilità dei fini. Soprattutto ha portato le finanze della nazione al disastro (al pari di Enrico V).
Ancora più in là si spinge Kristof, che paragona Bush a un imperatore romano (sempre nelle versione di Shakespeare): Coriolano, il quale vinse le sue guerre contro i barbari ma fu così inflessibile e intollerante «che la tragedia cadde su di lui e sul suo popolo». Profezie troppo nefaste? Bush può evitare il destino di Coriolano e di Enrico V, secondo Kristof e Ferguson, se impara a vedere le sfumature, ad agire in modo meno inflessibile e solitario, se riprende il sentiero della finanza sana e di una politica estera condivisa. E’ questa la sfida del secondo termine.
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