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(WSI) – Finora le perdite legate al debito subprime ammontano a circa 150 miliardi di dollari, ma il buco finale rischia di essere ben più grande, addirittura superiore ai 1.000 miliardi quando si include l’intero mondo del credito. Insomma, la bomba ha la miccia lunga, e potrebbe deflagrare in modo clamoroso nei prossimi 18 mesi. D’altronde, fioccano le peggiori previsioni persino da parte di quelle istituzioni che negli anni scorsi indulgevano a una visione ottimistica, come le agenzie di rating. In settimana la Standard & Poors ha annunciato che le passività generate dai subprime minacciano di superare i 265 mld di dollari, mano a mano che la «cancrena» si estende alle banche regionali e alle aziende di credito estere. Va ricordato che in altre crisi del passato, la portata delle svalutazioni apparve intereramente solo a posteriori. Viene in mente il terremoto delle casse di risparmio, fra gli anni ’80 e ’90. Inizialmente, la stima delle perdite convergeva sui 10 mld di dollari, poi se ne contarono 200.
Non è facile in questo momento trovare fonti autorevoli e trasparenti che possano parlare di credito. Su troppi analisti aleggia il sospetto di un radicale conflitto di interessi. Non per Bob McKee, capo economista della Independent Strategy, influente società di consulenza con sede a Londra.
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Dr. McKee, il pasticcio dei subprime ha causato perdite di 150 miliardi di dollari. Quale sarà il resoconto tra un paio d’anni?
Noi pensiamo che il consuntivo oscillerà fra i 500 e i 1.300 miliardi, se guardiamo a tutta l’economia globale. Lo sbocco più inquietante si avrà in caso di recessione in Nord America, perché allargherebbe il perimetro dei problemi ai derivati, al consumo e alle istituzioni creditizie europee.
Sono cifra iperboliche. Come ci si arriva?
Un passo per volta. Intanto analizziamo i finanziamenti subprime, vero epicentro della crisi. Questo tipo di debito vale negli Stati Uniti circa 1.500 miliardi di dollari. Se le perdite fossero nell’ordine del 15%, la cifra è di 225 miliardi, non lontana da altri calcoli in circolazione. Poi c’è il segmento “prime”, i mutui di prim’ordine.
Teme anche qui un’emorragia?
Non un’emorragia, ma qualche ammaccatura. In America il valore delle case è diminuito del 7-10% nel 2007. In caso di recessione ci saranno meno posti di lavoro. Inoltre la bolla immobiliare non è solo un fenomeno statunitense.
A cosa si riferisce esattamente?
Per esempio all’Europa. La curva dei prezzi residenziali vira verso il basso nel Regno Unito, nei Paesi baltici, in Spagna, in Irlanda e nell’Est Europa. Altrove vacilla. Il quadro d’insieme suggerisce che le perdite in Europa potrebbero essere intorno al 10% per i mutui meno solidi. Qualcosa come 150 miliardi di dollari.
Il risultato totale?
Sono 450 miliardi sui prestiti sub-prime e altri 200 su quelli “prime”.
Insomma morti e feriti…
Se il tracollo immobiliare precipiterà gli Usa in recessione, le ripercussioni non si limiteranno ai prestiti ipotecari. Ci sono i prestiti aziendali. La storia suggerisce che quando il pil Usa subisce una flessione, il tasso di default raggiunge il 3% in quel campo. Cioè altri 200 miliardi di perdite. Poi c’è il mercato dei derivati sul credito con un valore figurativo di 44 mila miliardi di dollari, per un credito sottostante di circa 5 mila. Il 4% potrebbe finire gambe all’aria con altri 200 miliardi di passivo.
E il credito al consumo?
Quello Usa vale 2 mila 500 miliardi. In recessione, il 5% delle pendenze rischia di non essere onorato. Altri 200 mld.
In settimana le cosiddette monolines, cioè le società di riassicurazione che garantiscono alle emissioni obbligazionarie la tripla A, hanno mostrato dei crateri nei propri bilanci. Quali conseguenze?
In base ai miei calcoli, le svalutazioni e l’abbassamento del rating origineranno 50-70 miliardi di passivo.
Insomma sono 1.300 miliardi di rosso. Ma senza recessione?
Se prevale uno scenario di atterraggio morbido le perdite si dimezzeranno a 500-600 miliardi di dollari.
Quale l’impatto di un buco da 1.300 miliardi sull’economia globale?
È circa il 2,5% del pil mondiale. Ciò vuol dire che nel prossimo biennio il ritmo di sviluppo calerebbe dell’1-1,5% l’anno. Ma il guaio è che i danni si concentreranno nel settore finanziario.
Dal quale dunque è opportuno rimanere alla larga?
Sì, perché il rapporto fra rischio e rendimento appare inadeguato.
Nell’evenienza peggiore, di quanto calerebbero le Borse occidentali?
Ancora del 25% rispetto ai livelli attuali.
In cosa è opportuno investire?
Conviene accumulare posizioni nel lungo termine. Qualsiasi cosa accadrà alla congiuntura nei 18 mesi venturi, ci sarà comunque bisogno di energie e carburanti alternativi. Oppure in Asia le società che si occupano di ripulire le acque o l’aria. Chiunque fa un salto a Pechino o a Shanghai si rende conto di come abbattere l’inquinamento sia uno dei nodi più impellenti delle società in via di sviluppo.
Qualche investimento più facile?
L’oro ha un grande potenziale di lungo termine. Il traguardo dei 1.000 dollari l’oncia è a portata di mano perché l’inflazione ha rialzato la testa, la Federal Reserve apre i rubinetti della liquidità e il dollaro fatica a ritrovare il suo equilibrio.
I titoli del debito europei costituiscono un porto sicuro nella fase corrente?
In parte sì, ma solo quelli di migliore qualità. Il raffreddamento della congiuntura dovrebbe favorire un moderato rialzo delle loro quotazioni.
La Fed è impegnata in un radicale sostegno all’economia e ai mercati con rapidi tagli dei tassi d’interesse. È una cura appropriata?
Cos’altro potrebbe fare? La cura è appropriata, ma il male è così profondo che richiede una certa fase di tribolazione.
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