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LA GRANDE OPPORTUNITA’ DELL’ EURO

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(WSI) – “La convenzione in base alla quale al dollaro è assegnato un valore eccelso di valuta internazionale non posa più sulle sue fondamenta iniziali… Il fatto che molti stati accettino dollari al fine di compensare i deficit della bilancia dei pagamenti americana ha fatto sì che gli Usa potessero indebitarsi con i paesi stranieri a titolo gratuito. Infatti, gli Stati Uniti pagano quello che devono a questi paesi con i dollari che loro stessi emettono a piacimento… Questa agevolazione unilaterale attribuita all’America ha contribuito a diffondere l’idea che il dollaro sia un mezzo di scambio imparziale e internazionale, mentre si tratta di un mezzo di credito appropriato per un unico stato.”

Queste furono le parole che Charles De Gaulle pronunciò, nel 1965, durante una conferenza stampa spesso considerata dagli storici come “l’inizio della fine” della stabilità monetaria internazionale del dopoguerra. La tesi di De Gaulle era che gli Usa stessero usufruendo di ingiusti vantaggi generati dall’essere la principale riserva internazionale di valuta e che, più precisamente, stessero finanziando il deficit della propria bilancia dei pagamenti vendendo ai paesi stranieri dollari che probabilmente si sarebbero svalutati.

La cosa che più colpisce dell’analisi di De Gaulle è come questa descriva perfettamente il ruolo del dollaro nel 2004. Questo è di per sè ironico, dal momento che lo scopo del generale era, se possibile, far cadere il dollaro dalla sua posizione di prima valuta mondiale. È vero, la pressione sul dollaro aumentò costantemente sulla scia delle osservazioni di De Gaulle. Già nel 1973, se non prima, il sistema di tassi di cambio più o meno fissi ideato a Bretton Woods nel 1944 era morto e il mondo entrava in un’era di tassi di cambio fluttuanti e di alta inflazione. Tuttavia, il dollaro non sfiorò mai la perdita del suo stato di valuta di riserva, nemmeno nei giorni più bui degli annni ’70. In realtà, ha continuato talmente bene ad assolvere a questo ruolo che nell’ultimo decennio alcuni economisti hanno cominciato a parlare di un Bretton Woods II – con il dollaro, ancora una volta, come valuta chiave. La domanda è: per quanto tempo potrà durare questo nuovo “dollar standard”?

L’esistenza di un “dollar standard” soprenderebbe qualsiasi americano che stia considerando una vacanza estiva in Europa. Con l’euro a $1.23 (contro i 90 cents due anni fa), i discorsi di una nuova epoca di tassi di cambio fissi sembra inverosimile. Ma il “figlio di Bretton Woods” non è un sistema globale (e, per la verità, non lo era infatti nemmeno Bretton Woods padre). È principalmente un sistema asiatico. Sono, infatti, agganciate al dollaro le valute della Cina, Hong Kong e Malaysia. Sono inoltre collegate, anche se meno rigidamente, quelle dell’India, Indonesia, Giappone, Singapore, Korea del Sud, Taiwan e Tailandia.

Come negli anni ’60, non è difficile dedurre che questo sistema avrà grandi benefici per gli Usa. Negli ultimi dieci anni il disavanzo americano delle partite correnti di beni, servizi e prestiti con il resto del mondo è drasticamente aumentato. Se si aggiungessero i debiti degli ultimi 12 anni, si arriverebbe a un debito totale estero di 2 mila e novecento miliardi di dollari. Alla fine del 2002, secondo il Ministero del Commercio, il debito internazionale netto degli Usa si aggirava intorno a un quarto del PIL. E pensare che nel 1988 gli Stati Uniti erano ancora una nazione creditrice verso il resto del mondo…

Questo rapido rovesciamento di posizione – da banca mondiale a maggiore debitore del mondo – ha portato due vantaggi agli americani.

In primo luogo, ha permesso alle imprese statunitensi di investire notevolmente (in particolare in tecnologie informatiche) senza obbligare gli americani a ridurre i loro consumi. Tra il 10% e il 20% di tutti gli investimenti dell’economia americana nell’ultimo decennio è stato finanziato dai risparmi degli stranieri, consentendo agli americani di spendere e spandere. Il tasso di risparmio personale è meno di metà di quello che era negli anni ’80.

Il secondo vantaggio si è concretizzato in tagli alle tasse piuttosto che in investimenti nel settore privato. Il clamoroso scivolone delle finanze del governo federale da surplus a deficit a partire dal 2000 – un deterioramento che non ha precedenti in tempo di pace secondo il FMI – è stato considerevolmente compensato dall’estero. Se non fosse stato così, la combinazione di tagli alle tasse, spesa in aumento e reddito in calo che ha caretterizzato la politica fiscale del presidente Bush, avrebbe portato ad aumenti molto più forti nei tassi di interesse americani a lungo termine. I veterani degli anni di Nixon e Reagan possono solo scuotere la testa con invidia per il modo in cui l’attuale amministrazione repubblicana è sfuggita alla punizione per il suo sperpero. Accumulare un deficit di questa portata mentre il rendimento obbligazionario a lungo termine è al di sotto del 5% sembra il più grande pranzo gratis nella storia dell’economia moderna. Il costo di servizio del debito federale è calato sotto l’amministrazione Bush, perfino mentre il debito totale aumentava.

Il motivo è che gli stranieri sono disposti a comprare i nuovi bond emessi dal Tesoro degli Stati Uniti a prezzi considerevolmente alti. Negli ultimi dieci anni la porzione di debito federale in mani straniere è cresciuta dal 20% a quasi il 45%. Ma chi sta acquistando tutte queste obbligazioni espresse in dollari, a quanto pare senza sapere della possibilità che, se le performance passate significano qualcosa, il loro valore potrebbe scendere di colpo? La risposta è che gli acquisti non sono fatti da investitori privati, ma da istituzioni pubbliche: le banche centrali asiatiche.

Tra il gennaio 2002 e il dicembre 2003, le riserve di valuta estera della Banca del Giappone sono arrivate a 266 miliardi di dollari. Quelle di Cina, Hong Kong e Malaysia sono giunte a 224 miliardi di dollari. Taiwan ne ha acquisito più di 80 miliardi. Praticamente la totalità di questa crescita è avvenuta sotto forma di acquisti di dollari Usa e bond espressi in dollari. Solo nei primi tre mesi di quest’anno i giapponesi hanno comprato altri 142 miliardi. Il motivo che induce le banche centrali asiatiche a comportarsi in questo modo è semplice: evitare che le loro stesse valute aumentino di valore in relazione al dollaro – un dollaro debole danneggierebbe, infatti, le loro esportazioni verso il potente mercato americano. Se non fosse per questi interventi, il dollaro si sarebbe certamente svalutato in relazione alle valute asiatiche, come è successo con l’euro. Ma le autorità asiatiche sono disposte a spendere qualsiasi cifra nella loro valuta per mantenere fisso il tasso di cambio con il dollaro.

Questo è Bretton Woods junior: un sistema asiatico di tassi di cambio stabilizzati che mantiene le economie di esportazione asiatiche competitive in America, offrendo allo stesso tempo agli americani un’agevolazione creditizia a basso interesse apparentemente illimitata con il risultato di accumulare enormi debiti nel settore pubblico e privato.

Visto da questa prospettiva, l’affermazione che il mondo abbia, senza volerlo, reiventato Bretton Woods è convincente. A lungo andare, il tasso di cambio reale del dollaro valutato secondo l’attività economica si è dimostrato notevolmente stabile. Ha sperimentato attacchi di rivalutazione nei primi anni ’80 e negli ultimi anni ’90 ma poi si è trasformato in una valuta mediocre. In questo momento è inferiore del 10% al suo valore del 1973. E dove il nuovo sistema differisce dal vecchio è a vantaggio del primo. Il Bretton Wooods originale aveva come premessa un collegamento fisso tra dollaro e oro. Ricordate l’affare Goldfinger? La prosperità dell’era della guerra fredda posava presumibilmente sulle fondamenta della riserva d’oro di Fort Knox. Ma questo rendeva il sistema vulnerabile alla speculazione di stranieri che, come De Gaulle, decidessero di conservare oro piuttosto che dollari. Questa volta c’è solo il dollaro in circolazione. Il sistema monetario mondiale è costruito sulla carta.

E qui scatta la trappola. Sembra che i promotori del nuovo Bretton Woods lo vedano come un sistema dal futuro roseo e illimitato. Gli asiatici continueranno a comprare dollari e buoni del Tesoro americani perchè hanno un bisogno disperato di evitare uno scivolone del dollaro e perchè non c’è un limite teorico alla quantità di valuta che possono stampare al solo scopo di compiere i loro acquisti di dollari. In ogni caso, per quale ragione gli stranieri non dovrebbero voler investire negli Usa? Si tratta, come mi hanno detto numerosi professionisti di Wall Street negli ultimi mesi, del luogo in cui investire ora che c’è una ripresa in corso. “Dove andranno altrimenti?” mi ha chiesto un banchiere di Wall Street il mese scorso, con una risatina di superiorità, “in Europa?”

Ma questa tradizionale saggezza ottimistica non tiene conto di una serie di grandi differenze tra gli anni ’60 e oggi. I deficit americani durante il vecchio sistema di Bretton Woods erano insignificanti e gli Usa stavano sperimantando un surplus di bilancio durante tutto il decennio. La gente, allora, era preoccupata del fatto che gli americani stessero investendo notevolmente all’estero, anche se questo era controbilanciato dall’afflusso di capitale straniero. Ma, soprattutto, era preoccupata del fatto che le azioni estere in dollari stessero superando la scorta d’oro della Federal Reserve. Oggi, gli Usa stanno accumulando enormi deficit e i flussi di capitale internazionale sono molto più ingenti, così come, di conseguenza, sono le potenziali tensioni per un sistema di tassi di cambio fisso.

Qualunque fossero i suoi pregi, il sistema di Bretton Woods non durò a lungo. Se si considera solo il periodo in cui il dollaro e le principali valute europee erano veramente convertibili in oro a tassi concordati, durò dieci anni (1958-68). Ci sono motivi per credere che questo figlio asiatico di Bretton Woods si dimostri ugualmente effimero. E gli strascichi del suo fallimento potrebbero essere dolorosi come la crisi della metà degli anni ’70.

Nonostante il fascino mistico del biglietto del dollaro, non si tratta di un pezzo d’oro. Dalla fine della convertibilità in oro, un dollaro è poco più che un fragile pezzo di carta stampata che ha un costo di produzione di circa tre centesimi. Il design a cui siamo abituati risale al 1957; da allora, a causa dell’inflazione, ha perso l’84% del suo potere d’acquisto. Dite ai giapponesi che sono i fortunati membri di un dollar standard e vi rideranno in faccia. Nel 1971 un dollaro valeva più di 350 yen; oggi si aggira intorno ai 100.

Fino a pochissimo tempo fa, la fragilità del dollaro non era di grande importanza. Gli abbiamo perdonato i periodici attacchi di svalutazione semplicemente perchè non c’era un’altenativa. La semplice entità del commercio americano (il prezzo di così tanti generi dal petrolio all’oro sono espressi in dollari) significa che il dollaro è rimasto la valuta mondiale favorita e la prima scelta per risanare i bilanci internazionali.

Nessun sistema monetario dura per sempre. Un centinaio di anni fa la sterlina era la valuta numero uno al mondo. Ma il crescente indebitamento della Gran Bretagna durante e dopo la prima Guerra Mondiale offrì al dollaro l’opportunità di reclamare prima l’uguaglianza, e poi la superiorità. Questo modello potrebbe ripetersi perchè c’è un nuovo nato sulla scena monetaria internazionale. E pochi americani hanno realizzato che questo nuovo arrivato, malgrado i difetti dei suoi genitori, è un rivale plausibile per il vertice.

Qualsiasi cosa possiate pensare dell’Europa come entità politica, non si può negare che la valuta che ha generato possiede quello che serve per contendere al dollaro il ruolo di valuta di riserva internazionale. Innanzitutto il PIL della zona euro non è di molto inferiore a quello degli Usa – era il 16% della produzione mondiale nel 2002 contro il 21% degli USA. In secondo luogo, diversamente dagli Usa, la zona euro sta accumulando un surplus di bilancio. In terzo luogo, e per me il più importante, dalla creazione dell’euro sono stati emessi più bond in euro che in dollari. Prima del 1999 circa il 30% dei bond internazionali erano emessi nelle valute precedenti all’euro contro il 50% in dollari. Negli ultimi cinque anni l’euro ha inciso per il 47% in questo senso contro il 44% del dollaro.

Questo potrebbe forse segnare un punto di svolta? Il mese scorso, durante una cena organizzata a Londra da una delle maggiori banche americane per circa 18 clienti e altre importanti istituzioni della City, ho chiesto chi pensasse che l’euro potesse sostituire degnamente il dollaro come pricipale valuta di riserva internazionale. Non meno di sei persone hanno risposto positivamente – e sono state pronte ad ammetterlo di fronte ai loro ospiti americani. Quando ho posto la stessa domanda a un gruppo più ristretto di banchieri di Wall Street, li ho trovati più scettici – sebbene uno di loro abbia osservato che l’euro è già la valuta preferita dal crimine organizzato perchè, al contrario della Federal Reserve, che non emette banconote con un valore superiore a 100 dollari, la Banca Centrale Europea emette banconote di grosso taglio, fino a 500 euro. Il che rende possibile riempire una ventiquattrore di circa 7 milioni di euro – cosa che può tornare utile in alcune zone della Colombia e anche, perchè no, a Wall Street.

Il futuro del sistema di Bretton Woods asiatico – e perfino della ripresa statunitense di quest’anno – dipende dalla volontà delle istituzzioni asiatiche di continuare (e continuare) a comperare dollari e bond espressi in dollari. Ma perché dovrebbero farlo se l’economia giapponese – come è ormai verosimile – sta uscendo dalla sua crisi deflazionaria? Tra l’altro, l’intervento giapponese non è stato del tutto proficuo nel frenare la caduta del dollaro: negli ultimi due anni lo yen è sceso da 135 a 110 in relazione al dollaro. In termini di yen, i rendimenti del portafoglio di dollari della Banca del Giappone sono stati decisamente negativi.

Inoltre, fare affidamento sulle esportazioni in Usa potrebbe, per l’Asia, non essere un’opzione a lungo termine. In una recente conferenza a Washington, Larry Summers, l’ex Ministro del Tesoro americano, ha affermato che gli Usa non hanno altra alternativa che aumentare i tassi di risparmio se vogliono liberarsi dal “problema più grave del basso tasso di risparmio nazionale che ha condotto alla dipendenza dal capitale estero e all’insostenibilità fiscale, problema con cui abbiamo dovuto fare i conti negli ultimi 50 anni”. La sua conclusione è che il mondo non può più considerare gli Stati Uniti come prima risorsa di consumo, il che significa che “i progetti di crescita altrui che fanno affidamento su un boom legato all’esportazione dovranno essere corretti negli anni a venire.”

Il dilemma riguardo il dollaro in Asia rappresenta l’opportunità dell’euro, sia economicamente che politicamente. Se gli Usa cessassero veramente di essere l’unico motore funzionante di domanda mondiale, è imperativo che la zona euro si faccia avanti, e presto. Per troppo tempo la BCE ha considerato la stabilità dei prezzi come il “nord magnetico” della sua bussola politica. Non si è pensato abbastanza alla crescita, in Europa e nel mondo. Per troppo tempo i tassi d’interesse della BCE sono stati circa un punto percentuale superiori a quelli della Federal Reserve, malgrado il fatto che la deflazione sia una minaccia più grave per il cuore dell’economia tedesca rispetto a quanto non lo sia mai stata per gli Usa.

Il presidente della BCE adesso è un francese. Forse Jean-Claude Trichet dovrebbe ricordare un po’ di storia. Trentanove anni fa il dollaro era sotto pressione mentre il coinvolgimento degli Usa in una caotica guerra postcoloniale iniziava ad aumentare. Fu Charles De Gaulle a comandare la sospensione del sistema di Bretton Woods che, dichiarò, obbligava le economie europee a importare l’inflazione americana. È arrivato il momento che qualcuno sospenda anche i giochi di Bretton Woods junior. Asiatici ed europei hanno un uguale bisogno di vendere i loro beni da qualche altra parte oltre all’America scialacquatrice. Devono anche riconoscere che l’emergere dell’euro come valuta di riserva alternativa al dollaro crea un’opportunità di spostamento sostanzialmente del centro di gravità dell’economia internazionale.

Se gli europei cogliessero questa opportunità, gli americani potrebbero trovarsi davanti alla fine di mezzo secolo di dominio del dollaro. Importa? Potete scommetterci. Perché se le istituzioni asiatiche iniziassero a ribilanciare il loro portafoglio spostandosi dal dollaro all’euro, per gli Usa diventerebbe ancora più difficile finanziare il consumo del settore pubblico e privato a quelli che sono, in termini di rendimento ai prestatori stranieri, tassi di interesse reali bassi o negativi. (Fate i conti: la percentuale di rendimento dei buoni del Tesoro americani a dieci anni era, l’anno scorso, intorno al 4% e il dollaro è sceso in relazione alla valuta giapponese del 9% nello stesso periodo).

Perdere quell’aiuto finanziario – praticamente i bravi stranieri sono disposti a pagare pur di possedere la valuta mondiale favorita – potrebbe costare caro. Infatti, un aumento dei tassi di interesse americani a lungo termine ai livelli recentemente previsti dall’economista Paul Krugman (un tasso del 7% per un obbligazione a scadenza decennale, un tasso di mutuo dell’ 8.5%) comporterebbe due devastanti conseguenze economiche. Questo non vale per le grandi società statunitensi, che sono coperte (più di 5/8 di tutti i contratti sono basati sui tassi di interesse). Ma un salto del 3% nei tassi a lungo termine colpirebbe considervolmente per primo il governo federale e poi i proprietari di case. Nè il Tesoro nè la famiglia media americana sono minimamente protetti. L’assetto dei termini del debito federale è incredibilmente breve: il suo 35% ha una scadenza minore a un anno, il che significa che i tassi più alti passerebbero quasi istantaneamente nei costi di debito di servizio (e nel deficit). Nel frattempo, anche mentre i tassi erano leggermente in rialzo, la proporzione di nuovi mutui americani a tasso mobile invece che fisso è cresciuta dal 12% verso la fine del 2002 al 32%.

Vale la pena ponderare le implicazioni geopolitiche di tutto questo. Un aumento dei tassi di interesse americani non solo ha la potenzialità di rallentare la ripresa degli Usa, ma potrebbe anche causare un aumento ancora più considerevole del deficit fiscale federale. In queste circostanze si alzerà la pressione per ridurre le spese discrezionali, il che di solito significa spese per la difesa. Sarà sempre più difficile vendere una costosa occupazione in Iraq a una popolazione che scricchiola sotto il peso di un debito crescente e in allarme per la spirale del debito fiscale. Nel frattempo, gli europei avranno aggiunto un’altra freccia al loro arco internazionale: non solo contribuiranno maggiormente agli aiuti e al mantenimento della pace, ma forniranno anche la valuta mondiale preferita.

È difficile identificare con chiarezza questi storici punti di svolta. Non è chiaro quando esattamente il dollaro abbia usurpato la sterlina, ma, una volta accaduto, la svolta è stata rapida. Se l’euro si fosse già fatto avanti, presto forse i produttori di petrolio si riunirebbero per valutare il loro oro nero nella moneta europea (un’idea che sicuramente affascina produttori anti-americani come Venezuela e Malaysia). Moneta mondiale non significa potenza mondiale: l’Europa è ancora lontana dal misurarsi con gli Usa per quanto riguarda il potere militare. Ma perdere la posizione di moneta numero uno senza dubbio indebolirebbe le fondamenta economiche alla base di quel potere.

Mentre queste spettrali implicazioni sulla fine del dollaro penetrano negli Usa, il fantasma del generale De Gaulle assapora la sua tardiva rivendicazione.

*Niall Ferguson è docente di storia alla Stern School of Business, Università di New York. Il suo ultimo libro è “Colossus: The Price of America’s Empire” (Penguin).

Fonte: http://www.countercurrents.org/eco-ferguson070604.htm

Tradotto da Erica Tancon per Nuovi Mondi Media

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