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LA GIOSTRA DEL PETROLIO

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E dire che pure stavolta il presidente della Federal Reserve, con l’aria distratta di chi s’è abituato a far finta di non capire, quasi c’era riuscito. Negli Usa l’inflazione annua desumibile nei sei mesi fino a marzo era già doppia di quella del semestre prima, ed era l’ovvio esito sgradito di tassi di riferimento mai così bassi dal 1958. Ma Greenspan addormentava le ansie di tutti con una delle sue frasi, non si sa se più contorte o lapalissiane. Ineffabile, il 4 maggio, spiegava che la politica del denaro facile «può essere congedata a un ritmo ch’è verosimile sia moderato». Ammetteva di non potersi esimere da alzare i tassi, ma assicurava: non troppo. Come se davvero il rialzo dei tassi fosse manovrabile solo a suo piacimento.

Invece pochi giorni e il prezzo del petrolio s’impenna, le Borse scricchiolano, il deficit commerciale Usa accelera. Parte la fuga degli speculatori che avevano usato i tassi d’interesse negativi per comprare proprio di tutto: oro, materie prime, titoli russi o brasiliani.

I decapitatori iracheni, gli affanni da inflazione della dinastia di Mao in Cina, e la liquidità creata in eccesso svelano che il gioco non è tutto in potere di Greenspan. La versione più tranquillizzante, con tassi della Federal Reserve a 1,75% quest’anno e al 3,0% a fine 2005, vacilla. Da metà marzo i rendimenti dei titoli di Stato Usa crescono di un punto e i tassi sono in tensione. E Bush, che nei discorsi ha ormai gli occhi sempre più vicini, ha un altro motivo d’ansia. L’aumento troppo ripido del costo dell’indebitamento potrebbe sciupargli una ripresa economica potente ma nutrita dai debiti.

Anche se è pur vero, deflazionati, i prezzi della benzina negli Usa sono più bassi oggi che nel 1980, e gli americani ne sono ancora solo irritati. E l’Arabia Saudita fa del suo meglio per minimizzare. Eppure a Bassora i soliti sentimentali nostalgici di Saddam hanno nel weekend sventrato un oleodotto: con un altro fuori uso, fanno 400mila barili al giorno in meno. Non poco. Ma i Sauditi hanno dichiarato che proporranno all’Opec di aumentare le quote di almeno un milione e mezzo di barili. Solo tre mesi fa e si adopravano per tagliarle.

Tanta sollecitudine adesso dunque più che rassicurare fa capire che i rischi sono seri. Altri attentati in Medio Oriente agli impianti non possono escludersi. Mentre la domanda va su, il petrolio per le consegne a giugno ha chiuso sopra 40 dollari, il prezzo più elevato dall’invasione del Kuwait. E persino il presidente Opec, dal nome così felliniano di Purnomo Yusgiantoro, s’è addolcito, il suo cartello di produttori pompa già 2 milioni di barili in più.

Ma è nei Paesi emergenti che l’aria distratta di Greenspan e le sue rassicurazioni nei giorni scorsi hanno funzionato meno. In Anatolia i rendimenti trentennali dei titoli sono raddoppiati; a Mosca la Borsa ha perduto i suoi guadagni da inizio d’anno; il peso messicano è finito al suo minimo annuo. Per non dire di Lula, il presidente del Brasile potrebbe anche denunciare il New York Times che intanto gli ha dato dell’avvinazzato che beve per dimenticare.

E i cinesi? Ovvio, copiano. Il rapporto della loro banca centrale ripete Greenspan, per restringere il credito dice di non stare pianificando alcun passo drastico. Ma quei mezzi finanziari di distruzione di massa, che sono i derivati, e non solo nei Paesi emergenti, potrebbero fare danni non minori dei terroristi.

In breve, fidarsi dell’aria distratta di Greenspan è un bene, ma con molto giudizio. E anche i dati sui prezzi al consumo Usa di aprile, che sono stati annunciati oggi, serviranno per capire quanto. Ma ogni manovra sui tassi resta essa pure a rischio terrorismo.

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